Marzo
Uscire di casa e realizzare che l’albero di mandorlo dall’altra parte del muro di cinta è già fiorito, a mia totale insaputa, mi lascia perplesso. Gli altri anni l’ho scrutato giorno per giorno. Quale demone mi ha chiuso gli occhi mentre le gemme si inturgidivano e si dischiudevano e io, ogni mattina, gli passavo distrattamente vicino?
“Sciroccu a mmare, muntagne chiare”, mi diceva un vecchio pescatore che aveva la barca al molo del lungomare di Otranto. Oppure era il contrario, cioè che è la vista delle montagne ad anticipare il cambio di direzione del vento. Dalla sommità della “Salita di Monticchio”, nei pressi del Santuario di Montevergine di Palmariggi, le montagne innevate dell’Albania sembrano altissime e incombenti sul canale d’Otranto. Oggi si vede anche la parte bassa della costa, la penisola di Karaburun che delimita il golfo di Valona e l’isola di Sazan, proprio di fronte a Otranto. Verso sud, invece, nel mezzo del riflesso dorato del sole, è apparsa Fanò, avamposto della Grecia, e, dietro di essa, si distende la sagoma bruna della bella Corfù (ma forse è solo la mia immaginazione a vederla).
Qualcuno ha investito e ucciso la volpe dalla grande coda bruna. Era sbucata dalla macchia inseguendo una preda e non vi ha fatto più ritorno. Le lunghe orecchie appuntite sembrano ancora vigili e il pelo della coda ondeggia alle raffiche dello scirocco. Il posto è proprio quello dove muoiono tanti giovani in motocicletta e la strada è sempre la stessa, quella strada bellissima che definiamo “dell’anima”, copiando un modo di dire inflazionato, dove la vita e la morte se la giocano alla pari, ingannandoti entrambe.
Il mare sembra calmo e luccicante, come un drappo azzurro di shantung di seta, visto dalla curva che dal falsopiano della Palascia ti fa scendere, con ampi tornanti, verso Porto Badisco. In realtà tutta la costa è orlata di schiuma bianca, “u mare de funnu”, che ti ricorda che solo ieri era ancora tempesta e che la bonaccia, attesa dai naviganti, tarderà ad arrivare.
“Dove due rocce spumeggiano d’acqua salata, mentre il porto rimane nascosto” declama Virgilio nell’Eneide (III, 552). Si dice che descriva proprio Porto Badisco, che avrebbe accolto lo sbarco di Enea, proveniente da Troia. Non ve lo cito io, ma il menù ingiallito e appiccicoso della trattoria, dove il piatto più gustoso che puoi assaggiare è quel raggio di sole che si fa strada nelle fessure del tendone e anticipa la primavera. I ricci sono fin troppo piccoli, eppure te li servono ugualmente. Non dovrei mangiarli, specie quando sono minuscoli, ma temo una reazione a catena e non sono ancora pronto a diventare vegano.
Porto Badisco sembra riempirsi e svuotarsi del mare, quando è scirocco. Le onde risalgono la spiaggia quasi fino a raggiungere l’erba, poi si ritraggono con uguale esagerazione. E’ bello addentrarsi nella piccola gola alle spalle della riva. La fioritura discreta dell’alloro, che nasconde i grappoli di fiori bianchi fra le foglie coriacee, e quella delle altre essenze spontanee della macchia, concentra profumi aromatici e dolciastri in quello stretto passaggio che si incunea fra due pareti verticali di roccia grigia. Sono odori inebrianti, da annusare nei pochi attimi di stasi fra una folata di scirocco e l’altra, fra un’onda e un’altra.
Ecco il mio bar ideale, un bar da litoranea. Piastrelle anni settanta e un pavimento in segato di marmi colorati. C’è un camino annerito, che si accende nelle serate d’inverno, quando il vento ulula, la sedia di plastica che convive con una vecchia panca di legno da oratorio e un tavolo di noce del primo novecento, lucidato dai gomiti degli avventori. L’eco di tante partite a carte e di incredibili racconti di mare.