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Marzo (2018)

Marzo

Uscire di casa e realizzare che l’albero di mandorlo dall’altra parte del muro di cinta è già fiorito, a mia totale insaputa, mi lascia perplesso. Gli altri anni l’ho scrutato giorno per giorno. Quale demone mi ha chiuso gli occhi mentre le gemme si inturgidivano e si dischiudevano e io, ogni mattina, gli passavo distrattamente vicino?

“Sciroccu a mmare, muntagne chiare”, mi diceva un vecchio pescatore che aveva la barca al molo del lungomare di Otranto. Oppure era il contrario, cioè che è la vista delle montagne ad anticipare il cambio di direzione del vento. Dalla sommità della “Salita di Monticchio”, nei pressi del Santuario di Montevergine di Palmariggi, le montagne innevate dell’Albania sembrano altissime e incombenti sul canale d’Otranto. Oggi si vede anche la parte bassa della costa, la penisola di Karaburun che delimita il golfo di Valona e l’isola di Sazan, proprio di fronte a Otranto. Verso sud, invece, nel mezzo del riflesso dorato del sole, è apparsa Fanò, avamposto della Grecia, e, dietro di essa, si distende la sagoma bruna della bella Corfù (ma forse è solo la mia immaginazione a vederla).

Qualcuno ha investito e ucciso la volpe dalla grande coda bruna. Era sbucata dalla macchia inseguendo una preda e non vi ha fatto più ritorno. Le lunghe orecchie appuntite sembrano ancora vigili e il pelo della coda ondeggia alle raffiche dello scirocco. Il posto è proprio quello dove muoiono tanti giovani in motocicletta e la strada è sempre la stessa, quella strada bellissima che definiamo “dell’anima”, copiando un modo di dire inflazionato, dove la vita e la morte se la giocano alla pari, ingannandoti entrambe.

Il mare sembra calmo e luccicante, come un drappo azzurro di shantung di seta, visto dalla curva che dal falsopiano della Palascia ti fa scendere, con ampi tornanti, verso Porto Badisco. In realtà tutta la costa è orlata di schiuma bianca, “u mare de funnu”, che ti ricorda che solo ieri era ancora tempesta e che la bonaccia, attesa dai naviganti, tarderà ad arrivare.

“Dove due rocce spumeggiano d’acqua salata, mentre il porto rimane nascosto” declama Virgilio nell’Eneide (III, 552). Si dice che descriva proprio Porto Badisco, che avrebbe accolto lo sbarco di Enea, proveniente da Troia. Non ve lo cito io, ma il menù ingiallito e appiccicoso della trattoria, dove il piatto più gustoso che puoi assaggiare è quel raggio di sole che si fa strada nelle fessure del tendone e anticipa la primavera. I ricci sono fin troppo piccoli, eppure te li servono ugualmente. Non dovrei mangiarli, specie quando sono minuscoli, ma temo una reazione a catena e non sono ancora pronto a diventare vegano.

Porto Badisco sembra riempirsi e svuotarsi del mare, quando è scirocco. Le onde risalgono la spiaggia quasi fino a raggiungere l’erba, poi si ritraggono con uguale esagerazione. E’ bello addentrarsi nella piccola gola alle spalle della riva. La fioritura discreta dell’alloro, che nasconde i grappoli di fiori bianchi fra le foglie coriacee, e quella delle altre essenze spontanee della macchia, concentra profumi aromatici e dolciastri in quello stretto passaggio che si incunea fra due pareti verticali di roccia grigia. Sono odori inebrianti, da annusare nei pochi attimi di stasi fra una folata di scirocco e l’altra, fra un’onda e un’altra.

Ecco il mio bar ideale, un bar da litoranea. Piastrelle anni settanta e un pavimento in segato di marmi colorati. C’è un camino annerito, che si accende nelle serate d’inverno, quando il vento ulula, la sedia di plastica che convive con una vecchia panca di legno da oratorio e un tavolo di noce del primo novecento, lucidato dai gomiti degli avventori. L’eco di tante partite a carte e di incredibili racconti di mare.

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Partenze

Mio figlio, uscendo da casa, spesso ci ringrazia. Saprà lui il motivo, forse perché nulla gli sembra dovuto delle nostre piccole attenzioni; ha conosciuto presto i vantaggi e i sacrifici del vivere lontano dalla famiglia, prima per studio e poi per lavoro.
Mio figlio prima di uscire da casa spesso ci ringrazia, anche se esce a mani vuote, come se stesse andando via portandosi dietro chissà quali doni. Poi mi saluta dicendo: -Ci vediamo fra poco…- Lo dice a prescindere se la sua assenza sarà solo di un quarto d’ora per fare una breve commissione, di una mezza giornata per andare al mare, di un fine settimana per una gita, o da trascorrere a casa di amici, oppure di una stagione intera, quando le sue ferie sono ormai finite.
Anche allo stacco frizione della sua auto in partenza o, con il labiale, dal finestrino del Lecce-Milano Centrale, oppure – ancora – dal limite dell’area dei controlli dell’aeroporto, il suo saluto è sempre lo stesso: -Ci vediamo fra poco!
Sorrido sempre a quelle parole, perché riescono ad azzerare la tristezza del distacco. Potrebbe dipendere dalla sua deformazione professionale che lo porta a schematizzare, a rendere semplice per gli altri la complessità. A volte ho pensato che sia solo una forma di pigrizia a ricercare un lessico alternativo per congedarsi. Ho capito, però, che il suo, più che un saluto è un augurio, un invito a non pensare al distacco, a proiettarci avanti nel tempo fino al momento in cui, da lui o da noi, oppure improvvisando o programmando meticolosamente una nuova meta, da qualche parte ci rivedremo.

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Itinerari: Friburgo

Friburgo

Friburgo, in Bresgovia, è senz’altro un’ambita meta natalizia ma, per intenderci, non è il paese di Babbo Natale. Infatti è una città di medie dimensioni. Tutt’intorno, però, è circondata da colline ammantate da boschi fittissimi e apparentemente impenetrabili. È questo che la rende, nell’immaginario del turista, come quel piccolo regno ritrovato tante volte nelle illustrazioni delle fiabe dell’infanzia. Ma non tutto è così perfetto e patinato. C’è una Friburgo iperattiva, come tutte le città, e poi c’è quello che colpisce ogni viaggiatore all’arrivo: l’odore acre dei crauti, che si avverte già dalla stazione e che sembra fissarsi sui vestiti. Sarà il leitmotiv di tutto il soggiorno in ogni strada, pub o ristorante. Così è, spesso, al di là delle Alpi…

Friburgo mantiene intatto il suo centro storico medievale e la suggestiva architettura nordeuropea, caratterizzata da tetti appuntiti di ardesia, antiche case a graticcio, intonaci colorati e legno a vista dalle belle tonalità calde.

Per il suo essere distesa in una valle, non anticipa nulla della sua bellezza, se non fosse per le guglie svettanti della cattedrale gotica. Non degrada da una collina come Zurigo, che appare già tridimensionale, con tutti i palazzi e le chiese in evidenza, al primo colpo d’occhio. Non ha un fiume come Basilea, né un lago per “barare”, per riflettersi e moltiplicare le luci. Bisogna girarci all’interno, nelle stradine di acciottolato, accompagnati dalle note dell’arpa celtica, pizzicata dalle dita dei musicisti di strada, per scoprirne gli scorci più suggestivi, e anche avere un po’ di fortuna per non trascurare i particolari più belli, se non si segue una guida fisica o virtuale.

Come in altre città del nord Europa, anche qui la gente è affamata di luce. Le finestre delle case sono senza tende, la parte interna dei davanzali è quasi sempre addobbata con candelieri, piccoli lumi, pupazzi e piante fiorite. Nelle grigie giornate invernali, la luce delle candele e delle lampade, accese fin dal primo mattino, dona all’interno delle stanze la gentile illusione che un pallido sole si sia affacciato in quelle case, a rinfrancare chi le abita.

Il profumo della resina d’abete è avvolgente, se si dà per scontata l’assuefazione all’odore dei crauti, tanto da poterlo ignorare. Proviene dai banchetti, sistemati nelle piazze, dove le anziane fioraie intrecciano i rami delle conifere con il vischio e il pungitopo. Confezionano, con grande maestria, corone augurali da sistemare sugli usci delle case e centrotavola per adornare le tavole delle feste. Di sera, questo persistente profumo di bosco lascia il posto a quello del vin brulé e del sidro che sobollono nei calderoni di rame delle osterie. Ogni oste utilizza una selezione di spezie e ingredienti segreti che conferiscono aromi unici al suo prodotto. I clienti apprezzeranno, di quelle tazze bollenti, anche il calore che ridarà vitalità alle dita congelate dal freddo, scioglierà la lingua e consentirà di proseguire la passeggiata nella neve fino al successivo punto di ristoro.

In tempi normali, prima del covid, dalla stazione di Friburgo partiva un treno che portava nel cuore della Foresta Nera e poi, dalla piccola stazione dove si fermava, dei vecchi pullman locali, guidati da autisti vestiti da Babbo Natale, conducevano i turisti a Ravennaschlucht (la gola del fiume Ravenna). Qui il bosco imbiancato di neve all’imbrunire si anima di elfi e di folletti; il tempo è scandito da un orologio a cucù grande quanto una baita, con personaggi meccanici di dimensioni umane che lo animano a ogni cambio d”ora.

Grandi bracieri riscaldano la gente nella freddissima notte della Foresta, cuocendo grossi pezzi carne speziata e filetti di salmone, questi ultimi inchiodati su taglieri di legno, posti di lato perché il calore delle braci arrivi più dolce e preservi la delicatezza del pesce.

Sulle teste dei turisti c’è la luna e il famoso ponte di pietra che scavalca la valle e da dove passa, a intervalli regolari, il treno utilizzato per le pubblicità natalizie della Coca Cola.

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Insomnia

INSOMNIA 2019

Non c’è un errore di battuta, nel titolo, e non c’è neanche alcun riferimento al famoso romanzo di Stephen King dove il protagonista, afflitto da un’insonnia cronica, sviluppa particolari capacità precognitive. È solo un vezzo narrativo, un esotismo che mi suona bene.

  • Stanotte non ho dormito quasi per niente! – Quanto dà fastidio quando qualcuno viene a lamentarsi, proprio con noi, insonni cronici, di aver avuto un’occasionale difficoltà a dormire. E la cosa che ci sembra più curiosa è che un episodio diventi notizia e che si provi sollievo nel comunicarla. Che poi sia quasi inopportuno farlo con chi notoriamente il sonno lo cerca ogni notte, con risultati molto approssimativi, è anche scontato. Ma tant’è! Ho visto di peggio. Persone che trovavano liberatorio informare i conoscenti dei particolari degli episodi di colite che li affliggevano, con tanto di impegnativa espulsione del tappo fecale e scroscio di diarrea conseguente. Da che mondo è mondo, ognuno prova sollievo a raccontare i propri malanni, ma c’è chi ne fa una missione. Fatta questa premessa, come evitare di cadere nel medesimo errore?

L’insonnia può essere una brutta bestia o un’amica. Io, ormai, non la combatto. A volte ho pensato che non dormire fosse un lusso non codificato, una forma di snobismo più o memo volontario, un disturbo da “persona intelligente”, quasi da ostentare come uno status da intellettuale. Ma poi mi hanno detto che l’insonnia andava curata e allora ho provato a farlo. Efficace, sì, ma era come buttarsi ogni notte in un pozzo scuro dal quale, poi, si riemergeva al mattino – come quei cadaveri che riaffiorano per frollatura – con pessimo umore e con una strana sensazione di aver subito una sorta di violenza, uno sdoppiamento forzato fra mente e corpo. Annientati entrambi, ma in luoghi diversi, come in un’esperienza extracorporea. Meglio di così non saprei spiegarlo. Ma voi, se fosse necessario, non esitate a curarvi. Ognuno di noi reagisce diversamente e ognuno ha un male minore da preferire e uno maggiore da controllare.

Quando arriva la luce, e sento che il mondo si scuote e si stiracchia, vivo persino quell’attimo di esitazione che mi farebbe indugiare nella condizione precedente, ancora in confortevole compagnia solo dei miei pensieri, di progetti che sembravano possibili solo in quel blando dormiveglia che mi è concesso quale palliativo, di estrose ricette di cucina che non realizzerò mai per i bizzarri accostamenti di ingredienti immaginati, di quadri che non dipingerò (giacché i tubetti dei colori a olio si sono ormai,da tempo, rinsecchiti nella loro cassetta) e di racconti che non vedranno mai la luce perché troppo audaci o sconvenienti. Se avessi potuto catturare la creatività visionaria, un po’ folle e scostumata, di quei momenti, prima che svaporasse nel primo caffè della giornata, chissà cosa avrei realizzato!

Perché l’insonnia ti lusinga, scava un alveo dove si incanalano le tue ambizioni, le tue confusioni e sensibilità, facendoti credere che se non riposi è perché devi essere vigile e da te ci si attende qualcosa di meglio e di diverso. Nel frattempo però, mentre ti concedi tutte le attenuanti del caso, ammesso che ci sia una colpevole complicità, hai veramente la possibilità di godere di alcuni piccoli piaceri che ti vengono riservati: i profumi, le luci e i suoni sono veramente diversi, e più definiti, quando la metà dei lampioni si spegne e quelli accesi si circondano di foschia densa, come soffioni di campo che attendono un alito di vento.

L’insonnia ti insegna, inoltre, che Il momento più buio e freddo della notte è quello che anticipa le prime luci dell’alba. É già risaputo, già scritto da tempi immemorabili. Constatarlo è, però, come averlo scoperto per primi. Ve lo giro, con il dovuto disincanto, perché (anche questo) mi suona bene e, magari, è una metafora elementare che può servire a far stringere i denti a qualcuno che, in questo momento, non vede ancora la “luce”.

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LO SCRIGNO

LO SCRIGNO

È il piccolo fondo di famiglia, acquistato alla fine degli anni sessanta: “u sciardinu” (il giardino), da noi si usa chiamare così un terreno che venga coltivato per svago e non per mestiere; cinto da muri, molto spesso a secco, e con un piccolo fabbricato rurale per ripararsi e, se sufficientemente confortevole, per soggiornare brevemente, oltre che per custodire gli attrezzi agricoli. Quel terreno, posto al culmine di un’altura e circondato da alti muretti a secco, era già ricco di roseti, fichi e ciliegi e, in qualche modo, nella sua semplicità, ci rappresentava.

Ricordo perfettamente il momento in cui, in una vecchia casa del centro, un’anziana vedova rimasta sola al mondo, proprietaria di quel fondo denominato “Campi”, consegnò a mio padre le chiavi lunghe e arrugginite del portoncino d’ingresso (non esisteva un cancello) e quella della porta della casetta di pietra leccese che c’era al centro del fondo. Ricordo che la signora alzò il prezzo, ma di poco, quando vide la nostra Ford Cortina, la riteneva (sbagliando) un’auto di lusso. Mentre firmava l’atto di vendita, dal notaio, la donna pianse silenziosamente con lunghe lacrime che corsero sulle sue guance bianche e caddero sulla carta vidimata, inumidendola.

Fuori dallo studio notarile, chiesi a mio padre perché la signora avesse pianto, invece di essere contenta per aver preso quelli che a me erano sembrati “tanti soldi”, già preparati dalla banca in una grossa mazzetta di fogli da diecimila lire e ricontati, al momento, dall’assistente del Notaio. Lui mi disse che la signora aveva pianto per i suoi ricordi legati a quel giardino, a cui non poteva più badare. I soldi, però, le avrebbero consentito di affrontare il futuro con più serenità. Fu quella la prima volta che capii che si possono comprare le cose, non i ricordi delle persone, ma che è comunque un trauma distaccarsi dalle cose perché diventano lo scrigno fisico dei sentimenti. Lo capii solo in teoria, e in modo grezzo, perché non avevo ancora, a quel tempo, la maturità necessaria e un magazzino di ricordi da mettere alla prova. Quel giardino, denominato “Campi”, perché faceva vivere a lungo i proprietari, divenne per me un posto che aveva una sua sacralità, perché aveva custodito i ricordi della vecchia e ne aveva suscitato il pianto. In seguito mi capitò spesso di provare a immaginare la quotidianità, ma anche le piccole ricorrenze, i pranzi all’aperto e le notti silenziose, specie quelle in tempo di guerra, passate al buio a fissare le stelle, dei componenti della famiglia che aveva vissuto, prima di noi, l’avvicendarsi delle stagioni in quella casetta a forma di cubo. La mia era solo immaginazione o stavo rivivendo fatti realmente accaduti? Forse l’anziana signora aveva avuto ragione a piangere, perché noi i suoi ricordi li avevamo comprati davvero, quella sera. Mi convinsi che una parte residuale di quelle memorie, forse la parte più tenace e incancellabile, era rimasta in quel luogo, nella terra rossa e fra le rocce affioranti, nei turbini di vento che si rincorrevano fra i ciliegi e in ogni rifioritura dei rosai. Dopo la sua morte, che avvenne qualche anno dopo, forse ne ero solo io il custode, l’ultimo testimone involontario. Una memoria presente ma ormai criptata e indecifrabile, che aleggiava insieme ai nostri ricordi, ancora ripercorribili, e a quelli, ancora più remoti, di coloro che erano stati lì’ prima di lei. Era uno scrigno da passare di mano, di cui si poteva avere contezza solo di una piccola parte, dello strato più in superficie, e che non si sarebbe, per questo, mai svuotato.

N.B. = Non mi ritengo uno scrittore per cui nessun mio scritto sarà mai messo in vendita, salvo che per motivi di beneficenza.