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Gli imperdibili

Gli imperdibili

Già pianificata in partenza, non poteva mancare la visita a “La Crocifissione” del Masaccio, in esposizione a Milano fino al 7 maggio presso il Museo Diocesano. L’opera è meravigliosa (cosa ve lo dico a fare?), con la disperazione della Maddalena dai lunghi capelli biondi, ritratta in ginocchio e di schiena ai piedi della Croce. È una delle figure più emblematiche della storia dell’arte e fu inserita dal pittore in un secondo momento. Il percorso organizzato dal museo per arrivare al dipinto è emozionante e suggestivo, a partire dal portale che si attraversa per entrare nell’area riservata. L’opera è stata prestata dal Museo di Capodimonte di Napoli, dove è esposta permanentemente (salvo, appunto, prestiti occasionali).
Una curiosità sta nel fatto che la testa del Cristo sembra priva di collo. Per alcuni è un errore incomprensibile, data la perfezione di tutto il resto. La giustificazione è che la Crocifissione era situata, in origine, all’apice di un polittico, quindi dovrebbe essere posta molto in alto e andrebbe guardata, pertanto, dal basso. In tal modo il “difetto” si attenua .

Indicazioni: in M3 fino alla fermata Missori e poi proseguire a piedi, avvalendosi del navigatore, fino a Piazza Sant’Eustorgio (17 minuti a piedi). La piazza è una bomboniera, un’oasi circondata dal verde, e merita la vista a prescindere. È arricchita dagli allestimenti dei banchetti dei fiorai e da un mercatino di prodotti di qualità (pane, miele, vini, ecc.).

Ingresso: 9 euro (7 euro per i clienti Unicredit, sponsor, che pagano con carta) che comprende anche il ricco percorso nell’arte sacra del Museo, la sezione dedicata alle sculture Lucio Fontana e la mostra del fotografo inglese Lee Jeffries. Non è prevista la preventiva prenotazione.

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Incontrando Chagal

Incontrando Chagall

Alla fine del giro sono ritornato alla basilica di Grossmunster, visitabile gratuitamente. Anche in questa chiesa i muri sono di pietra nuda, privi di intonaci decorati, quadri e statue di santi. Solo giù nella cripta, dove si respira un’aria umida, quasi rarefatta, e il suo odore è identico a quello di tutte le cripte del mondo, alcune tracce di antichi affreschi sono state ritratteggiate a grafite, al solo fine di indicare che, un tempo, quei muri erano dipinti con figure sacre ed episodi della Bibbia, opere sacrificate alla iconoclastia sopravvenuta. Nulla di entusiasmante, al primo impatto, in questo luogo il cui fascino è tutto, però, da ricercarsi fra le pieghe della sua storia, nelle sue vetrate gotiche, nel suono del suo organo monumentale. Forse è per questo, ho pensato, che, al contrario di molti altri paesi europei, per visitare le chiese a Zurigo non si fanno code e non si paga.

La sorpresa, quella vera, l’ho avuta, però, subito dopo. Finita la vista a Grossmunster e
lasciandomi alle spalle le sue belle torri svettanti, ho incontrato un’altra chiesa dall’aspetto aggraziato e con un bel campanile con l’orologio. Un cartello ne indicava il nome: Fraumunster, la chiesa del monastero femminile. Non so cosa mi abbia spinto a entrarci considerato che anche questa , come le altre visitate, sembrava offrire ben poco all’occhio. Mai come questa volta,
infatti, mi sono mosso per istinto, snobbando le mappe se non ritrovare la strada per ritornare in albergo. Ci sono entrato con il preconcetto che avrei visto solo dei banchi di legno e dei muri imbiancati o, al massimo, delle belle canne d’organo. Invece, una volta all’interno, stato colpito, quasi accecato, da tre fasci di luce colorata che provenivano da altrettante alte vetrate: una azzurra, una verde e l’ultima gialla. Poi, mano a mano che mi avvicinavo, fissando le figure che acquistavano nitidezza, la memoria mi ha restituito immagini di opere già viste, nomi di artisti già conosciuti. Informazioni che si accavallavano in disordine, senza collocarsi al giusto posto. Ho provato, per qualche secondo interminabile, la strana tensione di avere una soluzione a portata di mano e di non riuscire ad afferrarla. Poi tutto mi è stato chiaro. “Chagall, Chagall… sì, è Chagall!”
Ho pronunciato quel nome a bassa voce,
quasi temendo di sbagliare. L’ho ripetuto ad alta voce, cercando conferme a chi mi stava attorno, a dei turisti del tutto indifferenti e che, forse, ho indispettito per la mia invadenza. Ho cercato, peccando di provincialismo, un applauso o un premio. Certo che era Chagall! Il pittore che ha dipinto i sogni, annullando ogni legge di gravità. l suoi colori sono puri e gli ambienti puliti. Nel suo mondo le persone volano tenendosi per mano, gli oggetti si librano nel vuoto e gli animali hanno spesso volti ed espressioni umane.

Trovarsi di fronte a trenta metri di “quadri
luminosi” di Chagall, vedere la realizzazione più monumentale dei concetti della sua arte, intrisi di misticismo, mistero e cultura ebraica è stata un’emozione forte da vivere e, forse, ancor di più ora, che provo a raccontarla. Persino il tema drammatico di Gesù in croce, interpretato da Chagall, perde ogni angoscia di morte e diventa, tangibilmente, un simbolo di amore universale. L’amore interpretato e incastonato nel giallo, nel verde e nell’azzurro di quelle vetrate.

Qualcosa che assomigliava alla sindrome di
Stendhal aveva preso non solo me ma anche i tanti visitatori che avevano occupato tutti i banchi disponibili, come spettatori di una messa silenziosa di luce e colori, officiata da un sole in perfetto asse.

lorenzodedonno

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Marzo (2018)

Marzo

Uscire di casa e realizzare che l’albero di mandorlo dall’altra parte del muro di cinta è già fiorito, a mia totale insaputa, mi lascia perplesso. Gli altri anni l’ho scrutato giorno per giorno. Quale demone mi ha chiuso gli occhi mentre le gemme si inturgidivano e si dischiudevano e io, ogni mattina, gli passavo distrattamente vicino?

“Sciroccu a mmare, muntagne chiare”, mi diceva un vecchio pescatore che aveva la barca al molo del lungomare di Otranto. Oppure era il contrario, cioè che è la vista delle montagne ad anticipare il cambio di direzione del vento. Dalla sommità della “Salita di Monticchio”, nei pressi del Santuario di Montevergine di Palmariggi, le montagne innevate dell’Albania sembrano altissime e incombenti sul canale d’Otranto. Oggi si vede anche la parte bassa della costa, la penisola di Karaburun che delimita il golfo di Valona e l’isola di Sazan, proprio di fronte a Otranto. Verso sud, invece, nel mezzo del riflesso dorato del sole, è apparsa Fanò, avamposto della Grecia, e, dietro di essa, si distende la sagoma bruna della bella Corfù (ma forse è solo la mia immaginazione a vederla).

Qualcuno ha investito e ucciso la volpe dalla grande coda bruna. Era sbucata dalla macchia inseguendo una preda e non vi ha fatto più ritorno. Le lunghe orecchie appuntite sembrano ancora vigili e il pelo della coda ondeggia alle raffiche dello scirocco. Il posto è proprio quello dove muoiono tanti giovani in motocicletta e la strada è sempre la stessa, quella strada bellissima che definiamo “dell’anima”, copiando un modo di dire inflazionato, dove la vita e la morte se la giocano alla pari, ingannandoti entrambe.

Il mare sembra calmo e luccicante, come un drappo azzurro di shantung di seta, visto dalla curva che dal falsopiano della Palascia ti fa scendere, con ampi tornanti, verso Porto Badisco. In realtà tutta la costa è orlata di schiuma bianca, “u mare de funnu”, che ti ricorda che solo ieri era ancora tempesta e che la bonaccia, attesa dai naviganti, tarderà ad arrivare.

“Dove due rocce spumeggiano d’acqua salata, mentre il porto rimane nascosto” declama Virgilio nell’Eneide (III, 552). Si dice che descriva proprio Porto Badisco, che avrebbe accolto lo sbarco di Enea, proveniente da Troia. Non ve lo cito io, ma il menù ingiallito e appiccicoso della trattoria, dove il piatto più gustoso che puoi assaggiare è quel raggio di sole che si fa strada nelle fessure del tendone e anticipa la primavera. I ricci sono fin troppo piccoli, eppure te li servono ugualmente. Non dovrei mangiarli, specie quando sono minuscoli, ma temo una reazione a catena e non sono ancora pronto a diventare vegano.

Porto Badisco sembra riempirsi e svuotarsi del mare, quando è scirocco. Le onde risalgono la spiaggia quasi fino a raggiungere l’erba, poi si ritraggono con uguale esagerazione. E’ bello addentrarsi nella piccola gola alle spalle della riva. La fioritura discreta dell’alloro, che nasconde i grappoli di fiori bianchi fra le foglie coriacee, e quella delle altre essenze spontanee della macchia, concentra profumi aromatici e dolciastri in quello stretto passaggio che si incunea fra due pareti verticali di roccia grigia. Sono odori inebrianti, da annusare nei pochi attimi di stasi fra una folata di scirocco e l’altra, fra un’onda e un’altra.

Ecco il mio bar ideale, un bar da litoranea. Piastrelle anni settanta e un pavimento in segato di marmi colorati. C’è un camino annerito, che si accende nelle serate d’inverno, quando il vento ulula, la sedia di plastica che convive con una vecchia panca di legno da oratorio e un tavolo di noce del primo novecento, lucidato dai gomiti degli avventori. L’eco di tante partite a carte e di incredibili racconti di mare.

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Il castello Dal Verme

Nel Bosco Incantato, verso il castello dei Dal Verme, il maniero posto sulla cima del poggio che sovrasta il paese di Zavattarello (annoverato fra i borghi più belli d’Italia).

Il posto è infestato dal fantasma del nobiluomo Pietro ll dal Verme, che non si dà pace perché morto avvelenato dalla giovane sposa, Chiara Sforza. Lei non aveva accettato il fatto che, a matrimonio combinato, don Pietro le avesse preferito un’altra donna, della quale era veramente innamorato.

Alla morte prematura di quest’ultima (morte sospetta?), il conte si decise a chiedere in moglie la Sforza, nel frattempo rimasta nubile. Dopo il matrimonio, l’uomo morì. La nuova moglie si era vendicata: non gli aveva perdonato di essere stata costretta a fare la sua “seconda scelta”. Questo dice la storia tramandata. In realtà, Chiara Sforza avvelenò il marito per ordine dello zio, Ludovico il Moro, che voleva impossessarsi del castello e delle altre proprietà e ricchezze dei Dal Verme. E cosi avvenne.

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PARIS ANDATA E RITORNO

PARIS ANDATA E RITORNO

Nel 2013, di questi tempi, ero a Parigi. Volo e soggiorno low cost, nessun lusso, tengo a precisarlo, fermo restando che la possibilità, e ora la libertà, di viaggiare, per me, è sempre una forma di lusso (e non solo per i costi).

Ricordo un piccolo hotel sito a margine della Place d’Italie, dove la modernità dei palazzi di vetro e acciaio conviveva con la tradizione di costruzioni classiche, con il rumore assordante di un grosso cantiere stradale e con il profumo di burro e zucchero caramellato proveniente dai bistrot e dalle panetterie. Poi ci sono i ricordi “ufficiali” di quel viaggio: i Musei, la Tour Effeil, la navigazione sulla Senna, Notre Dame, Montmartre, Versailles… Sono i ricordi “rilevanti”, quelli da scrivere nel diario di viaggio, o da raccontare, al ritorno, a pochi intimi realmente interessati. Un gesto dovuto perché neanche i parenti e gli amici più cari capirebbero che i luoghi della cultura e del turismo nulla hanno a che fare, in una mia classifica ideale, con i ricordi che fanno veramente innamorare di una città e che sono quelli dei gesti ripetuti, che diventano quotidianità per un brevissimo periodo di tempo. Imparare a muoversi in un quartiere caratteristico, per esempio, riconoscendo le case e le vetrine; aprire, al mattino presto, una finestrella sulla piazza e sentire il profumo del pane fresco, del burro dei croissant e del caramello, delle mele e della cannella di una “tarte tatin”; osservare, incantati, l’eleganza innata e un po’ sognante delle donne di tutte le età e ceto sociale; rimanere ipnotizzati dai riflessi delle luci nei canali e lungo il fiume; assopirsi su una comoda sdraio sotto un tiepido sole autunnale, in un giardino fiorito come se fosse primavera; godere dell’eco delle ultime note di un canto gregoriano, sotto le volte gotiche di una cattedrale.

Quando parlo di viaggi cerco di essere sempre controllato, di porgere le esperienze con garbo e senza l’utilizzo dei superlativi, anche quando sarebbero giustificati, né provo a dispensare consigli su mete “irrinunciabili”, sapendo bene che molte persone non hanno mai potuto e non possono, per svariati motivi, muoversi dai luoghi di residenza. Uno dei miei più grandi “rimpianti” di questo periodo è proprio quello di non aver ripreso a viaggiare. Uso le virgolette perché la rinuncia a viaggiare, per motivi sanitari, è davvero poca cosa davanti a quello che si paventa a chi perde il posto di lavoro, oppure davanti al disagio di una malattia invalidante, o per qualsiasi altro motivo, incluso il disagio economico.

Fino ad adesso le foto, per me, avevano un valore di cronaca giornaliera, raramente mi capitava di sfogliare gli album o di scorrere le migliaia di immagini, mai selezionate per pigrizia, nelle memorie esterne del computer di casa. Le vecchie foto, per me, perdevano interesse subito dopo averle scattate e valevano davvero molto poco, salvo quelle dove potevo rivedere i figli piccolissimi o gli amici e i parenti che non sono più fra noi. Non sono mai vissuto di ricordi, anzi sono sempre andato avanti rispetto ai ricordi, li ho sempre solo “registrati” e li ho recuperati prevalentemente sotto l’aspetto narrativo ma mai con il desiderio reale di tornare, se non idealmente, indietro nel tempo. Questa è la prima volta, però, che rivaluto il ricordo e gli riconosco un valore compensativo. Ho riguardato, per la prima volta, alcuni filmati dei viaggi degli altri anni (vecchi e lunghi video di quando mi muovevo con tanto di telecamera e quelli, brevissimi, girati con i telefoni di ultima generazione) ed era come se davvero stessi rivivendo quell’esperienza, anche emotivamente. Non me lo so ancora spiegare. Penso di aver, in qualche modo, anticipato alcune situazioni psicologiche tipiche della vecchiaia, quando diventa impossibile reiterare alcune esperienze. Si può vivere pienamente anche di ricordi? Se la prospettiva si restringe, forse c’è un meccanismo mentale che interviene e che , appunto, compensa quanto non ci è più concesso di fare. Stringo i denti e mi attacco alla bellezza che ho già vissuto, senza vergognarmi di questo grande privilegio che ho avuto, di questo piccolo-grande “lusso” che mi sono concesso. È un modo di mantenermi allenato per la bellezza che verrà.

LDD 2020

Pubblicato in: Diario di viaggio, Racconti Umoristici

La cascata del mito a Santa Maria di Leuca

Ieri sera, alle 20,30 sotto la scalinata della Cascata monumentale dell’Acquedotto Pugliese di Santa Maria di Leuca, una piccola folla di curiosi locali e di turisti aveva preso posto sui gradini e sui parapetti del ponticello che ne attraversa il letto prima del tuffo finale. Però, avvicinandosi l’orario previsto, altra gente arrivava e, non trovando posto, usava tecniche diverse per ritagliarsi una seduta. C’era chi, ovviamente senza mascherina, tossiva e si soffiava il naso visibilmente e c’era chi si conquistava trenta centimetri di parapetto per sedersi e poi, a uno a uno, chiamava i figli piccoli che cercavano subito di trovare posto anche loro. È la tecnica “del culetto”: appoggi appena appena una chiappa, solo un angolino, e poi spingi indietro, piano piano, fino a scalzare la persona che sta già seduta. E tu, che vorresti mantenere il distanziamento e hai anche indossato il bermuda delle occasioni e la giacchetta blu da yachtsmen (quando non hai la barca e hai gli accessori…), che fai? Non cedi il posto al piccolino con la focaccia untuosa in mano che vuole stare con il suo papà? Ti alzi e dopo di te, a stretto giro, si alza anche chi prima ti era accanto. Poi arriva la nonna del piccolo, con il sacchetto delle focacce in mano, che è stanca per la rampa di gradini che ha già scalato, e poi la mamma e le zie. Con questa tecnica, due famiglie numerose, arrivate buone ultime, si sono assicurate la prima fila. Siamo rimasti tutti in attesa, chi in piedi e chi seduto, che qualcuno aprisse il rubinetto della cascata e ci facesse vedere almeno un rivoletto d’acqua. Intanto si era già accesa una suggestiva illuminazione tricolore che si alternava a quella “total red” della foto. Quando la cascata asciutta si tingeva di rosso, l’effetto era quello di una colata (statica) di lava infuocata.
-Da dove venite? -ha chiesto una signora con l’accento leccese ai suoi vicini di parapetto.
-Siamo venuti apposta da Bari – ha risposto l’altra.
-Anche noi, per la cascata! – la leccese.
-Beh! Però voi siete del posto…
-Per venire da Lecce bisogna venire apposta, però. Sa quanti chilometri ci sono da Lecce a Leuca?
-Ah! Vero!

Poi qualcuno, un attimo prima che arrivasse l’orario di apertura dell’acqua, ha consultato il sito dell’amministrazione di S.M. di Leuca, alla ricerca di curiosità e dati tecnici sullo spettacolo che ci attendeva. Oltre a quelli, però, c’era anche un avviso e ha diffuso la brutta notizia. Dal sito risultava, infatti, che il 3 settembre la cascata non sarebbe stata aperta, per motivi tecnici. Ma, a veder bene nel sito, già a partire da luglio tutte le date erano saltate. Improbabile che, proprio a settembre, il guasto sarebbe stato sanato. Ma perché disperare? E così, qualcuno ha detto: -Aspettiamo ancora, tanto siamo qui…
Intanto una signora ha chiamato la Pro Loco, che ha confermato che non ci sarebbe stata l’acqua nella cascata ma il pubblico avrebbe potuto godere dell’illuminazione multicolor. Come lo ha riferito ai presenti, uno ha urlato: -Digli che stiamo godendo da matti!
E via una serie di esilaranti battute su idraulici e rubinetti: ironia dilagante su questo guasto all’impianto dell’acquedotto che non è stato sistemato in due mesi di interruzione. -In fondo la cascata è proprio alla fine dell’acquedotto pugliese – dicevano – allora è proprio il rubinetto finale che si è rotto!
-Certo, però, che sottrarre un’attrazione (una delle più interessanti della località) già dall’inizio della stagione, e non aver provveduto al ripristino, suona di presa per i fondelli ai turisti…- dice qualcun altro. Nonostante fosse già ormai chiaro che non avremmo visto alcuna cascata e un tizio già preannunciava una feroce recensione su TripAdvisor, ho pensato di trovare su you tube un sottofondo adeguato. Ho fatto partire un video con le cascate del Niagara e ho alzato al massimo il volume, almeno per dare l’illusione agli astanti di ascoltare la cascata. Ma l’iniziativa non è stata accolta con tanto favore. Anzi qualcuno ha ritenuto, correttamente, che fosse uno sfottò. I mariti hanno cominciato a sollecitare le mogli ad andare via ma queste indugiavano ancora. Speravano forse in un miracolo ma su, nel santuario che sovrasta la cascata, Chi è preposto ai miracoli ha valutato che non fosse il caso di sprecarne uno a favore di chi usa la tecnica del culetto per rubare il posto a sedere e di chi ha minacciato di scrivere male di quel posto.
Alla fine ho proposto: -Signori miei, qui le vostre signore sono deluse e voi volete andare via. Chi è disposto a salire fino in cima e a generare, all’unisono, uno zampillo collettivo? Nessuno ha aderito, nessuno se l’è sentita di sfidare in pubblico l’efficienza della propria prostata.

La magica cascata di Leuca, pertanto, anche questa volta è rimasta nel mito. In fondo, però, la sua mancata apertura ha consentito il risparmio un’enorme quantità di acqua potabile, un bene primario sempre prezioso nella nostra regione assetata. Il dubbio che dietro non ci fosse un guasto reale, ma solo un motivo di buon senso e di opportunità, perciò, mi rimane.

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Al riparo, sotto un balcone

In diretta, al riparo sotto un balcone. (Lecce 18/01/2019)

Lecce, sotto la pioggia, non perde nulla, anzi, fa godere di spazi insperati, lasciati liberi da chi non ama camminare con il maltempo, e di un effetto di dilatazione delle architetture che si riflettono sul selciato bagnato. Questa mattina il centro è semideserto. Schivare il ruscelletto che si incanala al centro della strada, zigzagando fra le irregolarità dei conci di pietra che pavimentano la carreggiata, é quasi come un gioco, quando non si ha alcuna fretta. Solo in una piazzetta c’è un contenuto fermento e un viavai di abiti scuri e scarpe lucide. Un ragazzo attende, impaziente, sotto la cornice barocca di un portone…

La sposa é molto bella, come è bella ogni sposa, l’ho appena intravista fra i riflessi dei vetri azzurrati, incastrata nel sedile posteriore di una potente coupé. Non si affitta, di norma, un’auto sportiva per una cerimonia. La si possiede in famiglia, o la presta un caro amico; non sarà neanche tanto facile, per la ragazza, scendere da quell’auto. Ci vuole un’elasticità da contorsionista.

Scelta azzeccata: la chiesa di San Matteo, con quella sua spettacolare e accogliente forma convessa, prorompente sul sagrato e sulla strada, che diventa concava nell’ordine superiore, per concentrare la luce e la grazia di Dio. L’ho sempre associata a un grembo, che ti accoglie nella sua rassicurante e materna rotondità.

Qualcuno ha già preparato un ombrello candido per andare incontro alla sposa, appena si aprirà lo sportello. Le gocce pesanti hanno già staccato, però, molti petali dai bouquet di rose bianche, posti ai lati della porta. Un bianco che sembra catturare e riflettere tutta la poca luce naturale. È un pizzico d’imperfezione, un’infiorata imprevista che renderà uniche le foto ricordo.

Che dire ancora, prima che i piedi mi gelino nelle scarpe leggere che ho indossato incautamente? Auguri agli Sposi!

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Buondì da Atene

Buondì da Atene

I gabbiani volano anche di notte al Pireo, sfruttando la luce artificiale e i fari delle navi. Nel Salento siamo abituati a vederli ritirarsi nei loro nidi al tramonto, dopo aver fatto da comparse gradite nelle ultime foto infuocate. Sono gli stessi gabbiani che popolano le discariche in città e che consideriamo spazzini ineleganti, oppure, se planano sul mare, un simbolo di libertà. Come spesso accade, è l’uomo a condizionare la reputazione e l’esistenza stessa degli animali, secondo la sua convenienza, con i suoi comportamenti contro natura.

Siamo arrivati alle 4,45 circa, ora locale, e non mi sarei perso per nulla al mondo l’ingresso nel porto, nonostante i porti, poi, siano e si presentino tutti uguali: cemento, rumori meccanici e metallici, acqua stagnante che esala cherosene. Ad Atene è prevista una tappa breve, purtroppo, probabilmente per l’alto costo dell’attracco, per cui mi godo, seduto alla sdraio e con la felpa, l’alba sulla città vista dal mare. Come al solito avevo lasciato aperte le tende ed ero nel dormiveglia quando la luce bianca e concentrata di un faro ha scannerizzato la cabina per pochi secondi. Una sveglia luminosa efficace.

Questo porto non è uguale agli altri, non in questa parte in cui abbiamo ormeggiato. Sembra di essere entrati in un lungolago di una città del Nord Europa, con bei palazzi tutt’intorno, aiuole verdi e viali alberati, una moderna strada sopraelevata da un lato e una sorta di piccola penisola al centro del bacino, con edifici moderni e alberi. La nave ha girato su se stessa, sorvegliata da un rimorchiatore rosso, e si è affiancata alla zona alberata. È un bel porto, non c’è che dire. Quanto meno la parte dedicata alle navi da crociera. Da dove abbiamo attraccato noi passano tutte le navi passeggeri e i traghetti. Ne arrivano di tutti i tipi e dimensioni, alcuni modernissimi e altri decisamente più datati e segnati dalla ruggine. È comunque una goduria per chi ne sia appassionato.

Dispiace solo pensare che – per la crisi finanziaria e lo strozzo europeo – tutto ciò non sia più di proprietà greca. Infatti da tre anni, il 70% ca del Pireo è stato svenduto al colosso cinese del trasporto marittimo Cosco per un ammontare di 370 milioni di Euro. E questo insieme all’acquisto a saldo, da parte dei tedeschi, di ben 14 aeroporti. Non sapremo mai se l’euro sia stata davvero la salvezza dei popoli del sud o lo strumento per indebolirli e poi “papparseli”.

Comincia a crescere il rumore di fondo della città alle spalle, è il respiro della megalopoli…

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Dalle bianche scogliere di Dover a Le Havre

Da Dover a Le Havre.

La nave ha mollato gli ormeggi, sento le vibrazioni dei motori laterali che ci allontanano dal molo al quale eravamo addossati. Fuori dalla diga foranea vedo grandi onde che si frangono sui frangiflutti. Qui il mare è sempre verdastro e lattiginoso. Probabilmente stanotte troveremo mare grosso nello stretto della Manica. Direzione Normandia.

Nei saloni sotto si ballerà fino a tardi, al suono di musiche e ritmi sudamericani. I ragazzi dell’animazione sono tutti travestiti da suore. Questa sera insceneranno la loro parodia di Sister Act. Vado a buttarmi nella mischia. In realtà cercherò un localino con luci soffuse e piano bar.

Londra, anche sotto la pioggia, è stata splendida e non mi ha deluso neanche questa volta. Al Covent Garden un terzetto d’archi di giovanissime giapponesi suonava Handel e Ravel con grazia celestiale, interrotte – di tanto in tanto – dal fragore dei tuoni. In un antico pub, in una strada laterale, ho sorseggiato, seduto ad un vecchio tavolo di quercia lucidato dai gomiti degli avventori, un’ottima birra che non é stata neanche il motivo principale per entrarci: avrei pagato anche solo per il piacere di occupare quell’angolo vicino al camino.

Mentre la Mediterranea si allontana e il mare, inaspettatamente, sembra calmarsi, mi godo un’ultima volta lo spettacolo delle bianche scogliere e saluto il bel faro, anch’esso bianco, che assomiglia a una pedina degli scacchi. Sul balcone tira ancora un forte vento che contrasta l’apertura della porta e fischia forte nelle guarnizioni. Ho addosso maglione e piumino. Come ve la passate nel Salento? Siete già in bermuda e canottiera? Abusando della mia condizione di viaggiatore privilegiato, non invidio per nulla i vostri 30 gradi. Preferisco questo scampolo residuale d’ inverno che mi son procurato, più o meno consapevolmente.

E poi, quasi inspiegabilmente, il mare si è calmato e la nave è sembrata scivolare, quasi come sospinta dall’inerzia impressa da quel forte vento di Dover, fino a Le Havre. Durante la notte le navi segnalavano la loro presenza nella nebbia a colpi di corno. Se ne sentivano, vicini e in lontananza, di tutte le tonalità. Credevo bastasse il radar. Navigare nel Mar del Nord con una nave che si chiama Mediterranea ha un che di provocatorio, meglio chiamarsi Mein Shiff 3 e avere lo scafo dipinto di nero (era con noi ad Amsterdam).

La Normandia ci accoglie, adesso, con una temperatura più mite e con una tavolozza di colori di una raffinata scala di grigi. Qualcuno spera nel bel tempo. Già da ieri, dopo il forte temporale di Londra, é tutto uno scambio di informazioni meteorologiche e di consultazioni sui siti specializzati.

Sono fortunato, per me il “bel tempo” ha un significato più complesso e articolato, se è il tempo del viaggio. Non mi concede un solo secondo d’orologio in più ma è come se mi dilatasse lo spazio intorno e amplificasse le percezioni di ciò che mi accade. Una sorta di alchimia che rende liquidi i confini fra le due dimensioni.

“Et s’en va vers Le Havre,
et s’en va vers la mer…” recitava Jacques Prevert nella sua Canzone della Senna, imparata a memoria alle scuole medie. Poi continua: “…portandosi dietro i misteri e le miserie, quanto di buono e di cattivo ha raccolto da Parigi”. Di fronte al porto c’è l’estuario della Senna, con le chiatte da trasporto pronte per ripartire verso la capitale, cariche di ogni tipo di materiale. La mia professoressa sarebbe contenta se sapesse che ricordo ancora quella poesia in lingua francese, parola per parola.

Da meridionale che si rispetti mantengo sempre viva la capacità di stupirmi, a volte anche esageratamente, e di non sprecare mai le piccole soddisfazioni. Ieri, a Londra, qualcuno mi ha chiamato “sir”. Mi sono sentito tanto Francis Drake e Lancillotto (ma anche, e soprattutto, Mr. Bean).

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I Vespri di Notre Dame

I Vespri di Notre Dame.

Un foglietto piegato in quattro, che cade da un libro di fotografie preso dalla libreria, mi fa fare un inaspettato viaggio indietro nel tempo. Il viaggio, ideale e nostalgico, nello spazio era già premeditato; perché, se no, decidere di sfogliare un libro di foto dei capolavori del Louvre? La coincidenza del periodo mi sorprende: era proprio la Settimana Santa di qualche anno fa.

Un giorno, forse, si potrà ritornare a Parigi in relativa sicurezza e si potrà assistere ai vespri di Pasqua sotto la nuova volta di Notre Dame. Ma, per ora, la Pasqua è segregata e anche la cattedrale più famosa della Francia è inagibile: è ancora un cantiere aperto, lo sarà per diversi anni a venire.

Quella volta, la funzione religiosa era finita e non assistetti al vespro. Presi quel foglietto dei canti da un banco, come un originale e improprio souvenir, prima che il sacrestano li ritirasse. Se, invece di oggi, avessi ritovato quel foglio fra qualche anno, giocando con la debolezza dell’età e la confusione dei ricordi avrei potuto giurare di aver assistito veramente a quella celebrazione, come se ci fossi andato di proposito. Scrivere di fare cose normali in posti speciali paga sempre al narratore, gli conferisce un’aura da cittadino del mondo. In realtà, sappiamo tutti il tour de force che spetta al viaggiatore low cost in una capitale, con il tempo contingentato dal volo di ritorno. In quell’ipotetico futuro, ne avrei parlato con gli amici e sicuramente lo avrei anche scritto, partendo dal pretesto dello strano ritrovamento del foglio nel libro di foto. Forse, mischiando memoria e immaginazione, sarei potuto arrivare fino a descrivere la potenza dell’organo, quando il maestro apre i mantici e le canne vibrano, e poi le voci limpide del coro, di stampo gregoriano, filtrate dall’amplificazione e prolungate dall’eco naturale delle altezze gotiche delle volte. Lo avrei descritto con minuziosità di particolari, come faccio sempre, e con una naturalezza un po’ simulata, che avrebbe celato una punta di snobismo…

Ora che ci ripenso, però, quella volta organo e coro erano reali. Reali come l’odore dei ceri votivi e il colore caleidoscopico delle vetrate. Reali come le maschere dei visi di passaggio, rischiarati dalle fiammelle dei candelieri.

Non è solo suggestione, indotta dalla smania di raccontare. Sono un ricordo vero che l’età e la confusione mentale avevano riposto da qualche parte, fuori dai percorsi della memoria. Ora che l’ho ritrovato, mi emoziona come se fossi lì, forse ancora di più di allora, e, un po’, mi strugge.

Pubblicato in: Diario di viaggio, Pittura

IO, LA LUNA, EMILIO E LA VIC

IO, LA LUNA, EMILIO E LA VIC
(Diario di viaggio)

Prologo

“A Genova dicono che la Vic, come si fa chiamare dai suoi innumerevoli amanti, vent’anni fa era la più bella di tutte. Emilio, scrittore e pittore famoso, affascinante anche lui ma già in età matura, l’aveva vista nascere e l’amò intensamente. Le lasciò una sua opera, pur conscio che non sarebbe stata mai solo sua e che Lei, di quel dono prezioso, se ne sarebbe fatta vanto con tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui”.

Diario

La gente si è attardata nei locali e nei bar, sotto insegne altisonanti e pretenziose: Concorde Plaza, Gran Bar Orpheus…, indugiando davanti ai boccali vuoti di birra e ai bicchieri da cocktail con due dita di ghiaccio sciolto sulle foglie di menta. Poi si è spenta l’ultima chiacchiera, quella che anticipa i pochi secondi di mutismo che precedono i saluti. Qualcuno ha provato a mantenere ancora viva la notte, ma si è pentito di aver bruciato l’aneddoto più significativo del suo repertorio, o la sua barzelletta più nuova, davanti a una sparuta platea di amici, visibilmente insonnolita e ormai disattenta.

I camerieri iniziano a sistemare le sedie intorno ai tavoli vuoti e a passare i panni di microfibra sui vetri e sugli intarsi dei marmi, dapprima con circospezione, per non creare disagio ai clienti ritardatari, poi sempre con maggiore decisione. Fisicamente provati, anche loro, da un sabato da tutto esaurito – anche se qui c’è il pienone in tutti i giorni della settimana – ora possono finalmente smettere il sorriso d’ordinanza. Tra poco potranno anche sbottonare il colletto rigido e togliere il giacchino stretto. Il più giovane di tutti, sotto il suo ciuffo corvino, conserva ancora, però, le energie sufficienti per fare delle battute spiritose in inglese, con un occhio rivolto a una collega, una ragazza minuta con la pelle ambrata e dagli accattivanti tratti orientali. Immagino che il ragazzo stia pensando che questa possa essere la notte giusta, quella in cui il sogno più incontenibile sfuggirà all’impossibile e tracimerà nella realtà, quella in cui la sua Jasmine accetterà di farsi accompagnare e salterà con lui su un tappeto volante (e il mondo sarà loro…). Il suo capo barman, mentre risciacqua uno shaker, lo osserva con un’aria di disapprovazione che non si capisce se sia invidia o istinto paterno di protezione verso la bella dagli occhi a mandorla.

A mano a mano che le ultime persone escono dal locale, che l’ambiente viene ripulito e riordinato, mentre l’odore artificiale del detergente si diffonde nell’aria contrastando l’aroma, ancora persistente, degli ultimi caffè serviti al banco, la luce preziosa dei lampadari di Murano e quella precisa, quasi tagliente, dei faretti incassati nei ribassi del soffitto si riappropria degli spazi lasciati vuoti, ridefinisce i contorni degli arredi e mette in risalto le architetture dai colori vivaci, si riflette sugli specchi e sulle vetrate. Gli interni, ridisegnati dalla luce, appaiono dilatati, malinconici e solitari come nei quadri di Edward Hopper. E, come nella tela che ho in mente, il buio fuori, oltre le pareti di cristallo, è totale e funzionale a esaltare i contrasti. Esco all’aperto.

Dei gruppetti d’insonni provano a fare due passi ma non si è mai visto un inizio di giugno più fresco e il vento costante e l’umidità della notte non si conciliano con le spalle scoperte delle donne e i loro vestitini corti, con le bluse scollate e intessute di lustrini, con le camicie degli uomini di lino fine, portate fuori dai pantaloni e ormai stazzonate dalla sosta prolungata sui divani dei locali. Il cielo è uniforme e grigiastro perché un velo di foschia trattiene la luce, lo scherma e lo rende avaro di stelle. Solo di tanto in tanto, alzando gli occhi, ci si accorge che la foschia si è diradata, a tratti si è strappata, e sta lasciando intravedere uno scampolo scuro, profondo e scintillante.

Cosa si aspettano questi nottambuli che vagano senza meta, cosa mi aspetto anch’io, da questa strana notte che precede la luna nuova? La luna è lì, da qualche parte, oltre la cortina di vapore freddo. Un sottile semicerchio che ci scruta pur serrando gli occhi, inosservata, con la faccia ormai dipinta di nero, quella che ci fa rabbrividire – come un cattivo presagio – quando si rivela in una carta dei tarocchi assegnataci dalla sorte, ma anche quella che prepara le energie della Terra e che cova, per ognuno di noi, i fatti rilevanti che accadranno nelle sue fasi successive. Forse adesso è ancora più magica di quando la vedremo nuovamente, più avanti, in tutto il suo splendore e, favorendo il moto delle maree, riempirà le reti di pesci. Quando scandirà il tempo di nuove battaglie, scatenando l’aggressività, ma anche la vitalità e la voglia di fare degli uomini e degli altri esseri viventi. Al suo chiarore accadranno le cose, i baci degli innamorati saranno più intensi ma anche le storie fantastiche, popolate di fantasmi e licantropi, appariranno più credibili, ma non è questo il momento. Questo è, evidentemente, il tempo e l’ora in cui la luna segretamente concilia gli incontri, favorisce l’introspezione e la riflessione. La cameriera ha slacciato il fiocco del suo grembiule da pub e ha tolto la bustina che aveva sul capo, sciogliendo sulle sue spalle una massa di capelli setosi. Ora il ragazzo con il ciuffo le cammina di fianco, quasi proteso verso di lei, ma senza toccarla, temendo che l’incantesimo svanisca o che il capo, domani, lo riprenda perché le regole sono ferree e non sono ammessi rapporti sentimentali fra i dipendenti.

Anch’io ho un appuntamento, questa notte, forse anch’esso favorito dalla luna nera, anche se definirlo tale è inappropriato. Non è questo il motivo perché io sia qui ma devo confessare che arrivavo già preparato e ho evitato di scontrarmici, tenendo bassi gli occhi apposta, per non guardare e non bruciarmi in anticipo un piacere al quale intendevo riservare un momento di tranquillità. Questo pomeriggio c’era fin troppa gente e certe situazioni, invece, meritano la quiete e il silenzio. So che posso confidare nelle persone che mi accompagnano e che condividono con me le esperienze più significative della vita. Sanno che devono lasciarmi aumentare il passo, e farmi andare avanti, oppure consentirmi di rallentare, e rimanere indietro. Bastano pochi istanti, quelli che mi occorrono per confrontarmi, senza l’influenza di altri, con l’inquadratura di una foto, con lo sguardo o con un gesto significativo di una persona, davanti a un panorama inaspettato o a un’opera d’arte la cui visita è stata fortemente desiderata.

L’ampia sala è stata arredata strizzando l’occhio ai colori della pop art. Qui le luci non sono diffuse ma sono sapientemente dirette alle pareti. C’è un motivo: qui parlano i muri. Il mosaico di Emilio Tadini, che tanto ho aspettato di ammirare, mi avvolge su tutti i lati. Mi chiedo se, per interpretarlo, ci sia un ordine da rispettare. Le scene che mi appaiono sono complesse, ricche di personaggi e di simboli e l’opera è un rebus non facilitato. Che importa da dove partire? Ci sarà tempo per ritornare, riflettere e interpretare. Allora mi approccio istintivamente alla “pittura fantastica” del Maestro, al cielo piatto di tessere azzurre, turchesi e smeraldo, alle proporzioni invertite, alle strane prospettive e all’asimmetria, agli acrobati stilizzati dalle braccia e gambe disarticolate che si allungano nel paesaggio come ponti, che sembrano giocare fluttuando nell’aria, che scavalcano i palazzi, pronti a saltare, con una nuova piroetta, fuori dal mosaico, inondando l’ambiente di colori clowneschi. Sarebbe, comunque, un’invasione gioiosa e pacifica perché, come affermò più volte Tadini, parlando dei suoi quadri fantastici, “Il mio colore non sarà mai violento…”.

Sapevo che l’avrei trovato al Bar Capriccio e che ne adorna e impreziosisce le pareti fin da quando è stato inaugurato, nel lontano 1996 (pochi anni dopo Emilio Tadini, classe 1927, scrittore, poeta, pittore, indimenticato Direttore dell’Accademia di Brera, sarebbe morto), ma ero pienamente cosciente che era un posto difficile da trovare nella vita reale perché, coerentemente con il suo nome, non è mai nello stesso luogo, non ha un indirizzo e un codice di avviamento postale, né è mai dove noi vorremmo che fosse.

Su una pedana, addossata a un muro, c’è un pianoforte a coda bianco con le corde ancora calde. In quella sala c’è stato un pianista che si è esibito fino a poco prima. Ha guardato la gente seduta ai tavoli e ha adattato il suo repertorio all’età e alla nazionalità degli ospiti. Ha tenuto da parte, confidando nel successo della serata, qualche cavallo di battaglia per un’eventuale richiesta di bis, come se le persone fossero lì per lui e non per stordirsi di beveroni a base di rum. Vicino al piano, due grandi finestre si aprono verso Ovest. Mi avvicino ai vetri e mi faccio schermo con le mani intorno agli occhi, per azzerare il riflesso delle luci. Poi guardo l’orologio e faccio un rapido calcolo. Esco dal locale, mi affaccio a una balconata e aguzzo la vista. Vedo solo una striscia di luci traballanti all’orizzonte, troppo lontane e sfumate dalla foschia e dalle mie lenti a contatto, ormai appannate, per riconoscere Otranto. Però mi arriva, improvvisa, una folata tiepida di brezza di terra e mi illudo di riconoscere, in quel vento caldo, l’essenza della mia terra: il profumo dell’origano e della menta selvatica, l’odore balsamico della pineta che si distende lungo la litoranea e quello dei ginepri che trattengono le dune degli Alimini. La Sirena del Malepasso canterà inutilmente, questa notte mi befferò di lei. A sporgersi oltre il lecito, però, basta un attimo, quanto occorre per scorgere l’onda in costante avvitamento sul rostro che lacera il mare. È un’onda sollevata dalla spinta delle eliche che (citando vagamente Bertoli) si frange e si vaporizza sulla prora della Victoria, la “Vic” per i suoi innumerevoli amanti…

Epilogo

Ora non mi resta che continuare il mio giro notturno, ricongiungendomi ai miei compagni di viaggio. Abbiamo ancora da cercare la moneta che il capomastro ha saldato in una murata seminascosta di un ponte (perché la possano scoprire solo i più motivati). E’ il tributo che è stato pagato al momento del varo, perché la nave sia sempre protetta contro la mala sorte (e chi trova la moneta godrà di una protezione speciale)

(02/06/2019 – Dalla Victoria, in transito nel Canale d’Otranto, in lenta navigazione verso il Mar Egeo)

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Diario di viaggio: Arrivo ad Istanbul

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Diario di Viaggio: Arrivo ad Istanbul

L’alba schiarisce il cielo fino a renderlo del colore del ghiaccio sulla linea dell’orizzonte più orientale. Il mare di Marmara è un piccolo mare, quasi circolare, un mare strano, dai colori cupi, appena increspato da una brezza di provenienza indefinita, come se fosse percorso da brividi di freddo o forse di dolore, mentre la nave, implacabile nella sua spinta, ne lacera la superficie con un solco profondo, bordato di schiuma.

Nonostante sia già più chiaro, osservo ancora, su tutta la mia visuale, le luci di città e villaggi lungo la costa. Qualche ora prima, il passaggio dai Dardanelli è stato emozionante. Finita in fretta la cena, mentre imboccavamo lo stretto,  sono corso sul ponte più alto della nave, per avere la migliore  visibilità delle due rive. Ho visto specchiarsi sulle acque di quel budello di mare, ora a destra ora a sinistra, porticcioli e città brulicanti di luci, antiche fortezze e maestose mura. Alle spalle di questa fascia costiera antropizzata, ancora grappoli di luci sempre più in alto, sfumati e traballanti, variamente dislocati, e fasci di fari di auto che si inerpicavano o discendevano da montagne o colline solo immaginate.

Un uccello marino, in lontananza, sfiora il pelo dell’acqua, è un gabbiano e forse proviene dalle isole dei principi, la costa Turca è già delineata, ma ancora lontana.

Ora il grigio si stempera in una tonalità di violetto e poi di rosa, come solo certi bravi acquarellisti sanno rendere sulla loro carta da disegno: sapienti pennellate intrise di tanta acqua e solo di una punta di colore.

Era un esercizio che facevo da bambino per imparare a disegnare, ora è quasi una condanna quella che mi costringe ad analizzare mentalmente ciò che vedo, osservare le prospettive, scomporre le cose in figure geometriche, linee diritte o ricurve e colori. Tradurre un’immagine reale in un disegno ideale.

Ecco, quel mare lo avrei colorato di bistro molto diluito e, nella parte più chiara, laddove sarebbe spuntato presto il sole, ci avrei messo una punta di violetto ed una di rosso per farne proprio  quella sfumatura rosata …

Alzo lo sguardo verso il cielo e mi accorgo che ora i gabbiani sono tanti. Non volano a caso, e non intrecciano le loro traiettorie come ho visto fare tante volte sul mare di Otranto. Sono in formazione, quasi perfetta, e scortano letteralmente la nave, volandole di fianco senza deviare, alla stessa velocità di questo immenso condominio viaggiante. Il primo lancia un grido e tutti lo seguono, ora la nostra “scorta volante” si fa anche sentire .

Già l’alba si tinge di arancio, rendendo il mare dorato ad oriente. Nella foschia si delineano le  sagome scure di navi da trasporto, molte sono alla fonda, altre si muovono molto lentamente, come vascelli fantasma , accompagnate dal sommesso battito del diesel. Alcune di esse i sono moderne e imponenti , altre vecchie e cariche di ruggine. Tutte attendono il permesso di attraversare il Bosforo.

Ancora qualche minuto di navigazione lentissima e finalmente Istanbul si delinea proprio dove il riflesso del sole che sorge rende il mare color oro. Impossibile da tradurre in un colore definito sulla mia tavolozza, allora il mio elaboratore mentale, finalmente, va in “tilt” e posso godermi, semplicemente, quest’immagine di finita bellezza,  mentre la frequenza cardiaca aumenta mano a mano che gli occhi mettono a fuoco.

Cupole e i minareti mi appaiono, come in un miraggio, ancora sfumati dalla nebbia del mattino. Ora posso vedere alla mia sinistra, chiaramente, il panorama fiabesco della zona europea della città. Immersa in un contesto di vegetazione inaspettata, ecco la Chiesa di Santa Sofia, sconsacrata dagli Ottomani ed ora Museo. E’ forse la più antica cattedrale esistente sulla terra, verrebbe d’istinto farsi la croce, meglio non farlo quando saremo a terra … Quella di fronte è la Moschea Blu, la cattedrale musulmana, con i suoi sei minareti, le splendide ceramiche policrome ed il suo immenso tappeto fiorito. Subito dopo, i padiglioni del Topkapi, il palazzo dei Sultani, la reggia meravigliosa da mille e una notte che ne custodisce i tesori.

Istanbul, vista dal mare, è proprio come te la immagini, come è nei libri di scuola, com’è  nelle fiabe della nostra infanzia, come è rappresentata nei vecchi film, come è descritta nei romanzi di Agatha Christie, come l’hanno vista i primi turisti occidentali che vi arrivavano con l’Orient Express, la cui stazione, ancora intatta e bellissima, è proprio a due passi dal porto.

Abbiamo già imboccato lo stretto del Bosforo e la nave inizia le manovre per l’attracco. Mano a mano che si avvicina all’approdo, il movimento di navi e battelli diventa frenetico. Intorno a noi il mare si traccia di scie bianche di motoscafi, vaporetti, traghetti che trasportano le auto da una riva all’altra dello stretto. Cominciano a sentirsi i rumori del traffico, il respiro della megalopoli. Sulla riva di destra c’è la zona asiatica della città, quella dove vivono oltre 10 milioni di abitanti, quella che non vedremo mai …

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