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Spazio 1969

Spazio 1969

Che ne sanno i ragazzi di oggi delle nostre battaglie spaziali? Dopo una serie di giri, salendo e scendendo, arrivava il momento della sfida finale. I dischi volanti, disegnati sulla falsariga delle auto volanti dei Pronipoti (The Jetsons) di Hanna & Barbera, non rispondevano più ai comandi individuali e tutti i bracci idraulici posizionavano le navicelle in alto. Andavano su anche gli equipaggi più timorosi, quelli che non avevano mai tirato la cloche fino al massimo e che avevano girato solo a mezz’aria. L’amico fisicamente più forte agguantava il volantino e faceva ruotare il disco da un lato all’altro; il copilota prendeva i comandi delle armi. Bisognava, infatti, sparare fasci di luce a 360 gradi contro i dischi volanti nemici, azionando un pulsante sulla cloche. Una cellula fotoelettrica faceva “cadere”, poi, uno dietro l’altro, i velivoli colpiti. In realtà non ho mai capito se fosse davvero così sofisticato, quel sistema, o se fosse l’operatore alla cassa a mandare giù i dischi volanti che, a suo giudizio, ritenesse più lenti.
Rimaneva in alto solo l’equipaggio vincente e, una volta riportato in pedana anche quello, gli spettava un nuovo giro in omaggio.
Io e Sandro atterrammo vincitori, contenti di poter riscuotere il nostro premio meritato. Nello scendere, però, il disco ruotò leggermente; troppo tardi per ritirare la gamba esposta nel vuoto, ero già troppo sbilanciato in fuori e caddi nel vano interno della giostra, quello dove agivano i bracci idraulici.
“Alli vagnoni, de e cadute li protegge la Madonna” dissero gli astanti, increduli, quando mi rialzai, là sotto, perfettamente integro.
L’unica conseguenza visibile di quella caduta fu il provvidenziale accorciamento dei pantaloni nuovi di vellutino a coste leggerissimo, color aragosta, comprati da Candido apposta per la festa del Santo Patrono. Il giorno dopo, lo strappo che li aveva rovinati ormai era un ricordo. Mia madre tagliò la parte dal ginocchio in giù e con la Borletti (“punti perfetti’, diceva la pubblicità dell’epoca) fece un nuovo orlo, trasformando un jeans lungo in un bermuda che, in quegli anni, si chiamavano ancora calzoni corti. Tanto l’estate era già alle porte…

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La pompa e il pozzo

LA POMPA E IL POZZO – luglio 2018
Dal diario di viaggio

Il vento si è alzato velocemente mentre eravamo ancora a ridosso di Santa Maria. Quest’isola ha una lunga spiaggia bianca di cristalli di granito e un mare che, per tali caratteristiche di rifrazione, è di un turchese luminescente che satura la vista.
Quella spiaggia scintillante è delimitata, purtroppo, dai muretti a secco delle ville, edificate prima di ogni regola restrittiva e oggi di proprietà di magnati della finanza e di Vip dello spettacolo. Qualche maldicente parla anche di funghi spuntati nottetempo e risanati con provvidenziali condoni. La più centrale è quella che appartiene a Roberto Benigni. A pochi metri mi indicano quella di sua moglie, (o di proprietà un’immobiliare di famiglia che lei possiede). Dormono in ville separate? E’ una battuta… Di fianco c’è anche un laghetto naturale, “naturalmente” privato, con ninfee bianche e rane gracidanti; qualcosa che, nei racconti, ricorda gli stagni fantastici di Monet. Le case sulla spiaggia, qui, non si possono costruire ormai da decenni. Queste in arcipelago, nel parco marino naturale della Maddalena, hanno valori inestimabili. A volte, imparare a memoria la Divina Commedia, può ripagare!

Il vento, che ora rinforza, fino a poco prima era tanto debole e incostante che lo skipper ha acceso il motore, in diverse occasioni, per superare alcuni passaggi impegnativi sotto costa. Prima di partire ci aveva chiesto se fossimo velisti, forse proprio per sentirsi autorizzato a fare manovre non ortodosse, soggette a critiche, oppure sperando che lo fossimo e potessimo fargli anche da equipaggio, secondo la nuova tendenza che si può anche pagare non solo per avere un servizio ma anche per svolgere occasionalmente un mestiere che abbia qualcosa di suggestivo. Ma non bisogna essere velisti per comprendere l’approssimazione e, per quanto ci riguarda, non intendiamo uscire dal nostro ruolo prestabilito di ospiti paganti.

Il vento ha iniziato a soffiare con intensità e ha gonfiato le vele. Comincia il divertimento. La grossa barca, che prima sembrava lenta, goffa e impacciata nelle manovre, si è inclinata su un lato e ora taglia in due le onde come una lama implacabile, senza più alcun rumore meccanico, solo quello del vento trattenuto nelle vele e quello del mare che, vi assicuro, rinfranca e riposa più del silenzio. Lasciato il tranquillo pozzetto di poppa, troviamo una sistemazione sulla tuga per goderci quel momento. Ci raggiunge la ragazza che assiste lo skipper. – Ho una casetta, ma veramente piccolissima, a San Teodoro, una specie di nido – ci dice – mentre il suo comandante è indaffarato a manovrare a poppa. Parla guardando un punto fisso lontano, mentre il vento le ingarbuglia i folti capelli biondi e ricci. È poco più di una ragazzina, tutta energia e voglia di vivere. Poi aggiunge, decisa: – Se la stagione mi va bene… cambio la pompa al pozzo e mi trasferisco lì!

-Scusami – la interrompo – puoi ripetermi la storia del pozzo? È la prima volta che sento questo modo di dire e me lo vorrei segnare…-
Mentre parlo, interrogo con gli occhi Antonello, che mi siede di fronte e che mi fa spallucce, neanche lui lo conosce, nonostante sia un sardo “doc” (non è un motto sardo tradotto, quindi). I quattro inglesi, con i quali condividiamo la mini crociera in arcipelago, invece sorridono e annuiscono, come se avessero compreso ogni cosa.

-No…No… – risponde lei, divertita – Devo proprio comprare la pompa del pozzo della casa! Per tirare su l’acqua…-.

-Ecco come nascono i modi di dire – le rispondo – Me lo segno lo stesso…-.
Per la serie: quando la spiegazione è più semplice di quanto tu possa credere.

©️Mio

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Vento d’insonnia

Notte d’insonnia, di tempesta e di nuvole basse. Di scirocco africano, pregno di sabbia del Sahara e di essenze tribali. Impietoso, ha scosso incessantemente il bosco di querce e zittito la civetta e l’assiolo.

Bypassando mentalmente i rumori molesti di barattoli che rotolano, di secchi della differenziata che si capovolgono, di persiane che sbattono, si può isolare il solo fremere delle foglie. Può sembrare il frangersi schiumoso di un’onda nei pressi della riva o lo strisciato di un batterista ispirato.

A Castro, il Pizzo Mucurune da millenni taglia in due le onde gonfiate dal vento. Che spettacolo sarebbe essere lì, alle quattro del mattino, fra gli spruzzi che si impennano fino a raggiungere la litoranea. Stringersi nella giacca e provare quel brivido, che non è solo di freddo.

Notte d’ insonnia e di pensieri. Di rituali inutili e di camomille che si freddano. Il narratore, come Mister Hyde, ha la meglio sull’uomo, che spera nel riposo. E’ lui il più forte!

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La casa di Zio Lele

A Viarigi abbiamo pranzato all’aperto, protetti dalla grande Torre dei Segnali del 1300 che domina la collina, sotto le tegole rosse del portico di una casetta rurale così piccola che, all’interno, non ci avrebbe contenuti tutti. In realtà è una sorta di rifugio, quasi un eremo, non adatto a soggiornarvi a lungo, utilizzato per ripararsi dalla calura estiva e dalle intemperie, oltre che per riporre gli attrezzi agricoli. È la casa ideale per ambientare dei racconti, quella che sarebbe perfetta per la nonna di Cappuccetto Rosso oppure per un’entità boschiva, una “masca”, come la chiamano qui, la strega che opera sortilegi in questi luoghi e che corrisponde alla nostra macara, o striara, salentina; è circondata da vigne e da peschi in fiore, fra un noccioleto che scende lungo il declivio e un boschetto quasi impenetrabile, sul lato opposto, dove trova una via di fuga la volpe dalla grande coda rossa che ha scavato la sua tana proprio sul limite del vigneto.

Bisogna lasciare la strada in alto, alla periferia del paese, e percorrere un sentiero in forte pendenza, fra l’erba alta e una fioritura strepitosa di arbusti e amarene selvatiche, per raggiungere il podere dello zio Lele, che non è mio zio ma oggi è come se lo fosse stato perché tutto, in quel luogo, parla ancora di lui, ogni albero messo a dimora e persino i mattoni dei muri della casetta, dei quali ha selezionato le diverse tonalità di terracotta. Zio Lele rivive nel ricordo di due suoi nipoti che, rilevandone la terra dopo la sua morte, ne hanno raccolto l’eredità morale prima ancora dei diritti di proprietà, con tutti gli impegni che ne derivano.

Poi ha iniziato a piovere, di quella pioggia leggera e silenziosa che bagna le campagne del nord, un tempo per giorni e giorni e che oggi è diventata rara anche qui. Ci siamo stretti intorno a un caffè bollente e a un vassoio di dolcetti di pasta di mandorla, che ho portato da Maglie, per contrastare l’aria più fresca sopraggiunta con la pioggia, in attesa che spiovesse e ritornasse il bel tempo.

Per me il “bel tempo” ha un significato più complesso e articolato, se è il tempo del viaggio. Non mi concede un solo secondo di vita in più ma mi dilata lo spazio intorno e mi amplifica le percezioni di ciò che accade. È una sorta di alchimia che rende liquidi i confini fra le due dimensioni, uno stato di grazia.

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Innocenti evasioni (marzo 2020)

INNOCENTI EVASIONI

-Che vento è oggi?
-Tramontana, anzi scirocco! A pensarci bene è bonaccia, vento a regime di brezza…

-Dove conviene andare a fare un giro? Lungomare, corso e porto a Otranto, dove si sta bene con lo scirocco, o a Castro di sopra, in piazzetta, e poi giù alla marina, dove è calmo con la tramontana?-.

-Penso che vada bene ovunque, scegli tu!

-Che ore sono?-.

-Le cinque, quasi…-

-Ah! Caspita! Oggi siamo andati lunghi con il pranzo, con il riposino e con il cazzeggio sul divano…-.

-È vero, ma oggi ci siamo rilassati un po’. La domenica si può fare. Ma sta già per fare buio…-.

-E se ce ne restassimo a casa questo pomeriggio?-.

-Hai ragione, è vero che non c’è vento ma se va a finire che cala l’umidità e ci raffreddiamo?-.

-Va bene, allora stiamocene a casa… Non c’è niente di più brutto che prendersi un malanno in primavera… te lo porti fino all’estate!-.

-Accendo l’acqua. Tè o tisana?Tu prendi i biscotti…

(È davvero una sensazione di leggera follia!)

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Rientrando a Bari da Cagliari

Rientrando a Bari in aereo, fra un vuoto d’aria e una turbolenza a ciel sereno. Ho attraversato la Sardegna in pullman fino a Cagliari, rifacendo il percorso al rovescio. Una lunga strada che inizia dalla Costa Smeralda, insinuandosi fra macchia mediterranea, boschi e montagne di granito che sembrano emergere, a falde, dal sottosuolo e addossarsi l’una all’altra come tessere di un domino scomposto. Continua sinuosa, per lunghi chilometri, in zone montuose e collinari, attraversando gallerie e sfiorando città e piccoli paesi che appaiono, sfumati, fra le alture. Poi, infine, si allunga verso il capoluogo di regione, bordata di oleandri e ginestre che hanno ancora uno spruzzo di fiori giallo oro sulle estremità dei rami. Sono fortunato, mi hanno detto. Questo luglio la Sardegna è ancora verde perché la pioggia è stata abbondante e non ha mai smesso. I margini delle strade e i prati, infatti, sono ancora fioriti come se fosse tarda primavera. Qui il panorama è pianeggiante, la terra è agricola, con vaste colture irrigue e campi di grano trebbiati. Mi appaiono, del tutto inaspettate, delle vaste risaie allagate, come quelle del pavese, con le piantine di riso verdissime. A rifletterci, però, del riso prodotto in Sardegna ne avevo già sentito parlare: un riso eccezionale. Anche questo è vacanza, come lo è scambiare qualche parola con una signora che va ad assistere la figlia che deve partorire. È allegra e ansiosa al contempo.

-Puppa? – ha chiesto l’autista.

-Noooo! Puppo! – ha risposto, orgogliosa, lei.
(Il sardo, parlato dalle donne, è una lingua ancora più musicale e misteriosa). L’andata l’avevo fatta con un trenino sferragliante, che aveva attraversato una zona più interna. I finestrini del vagone erano tutti aperti e le tendine blu di cotone pesante, sollevandosi per il vento, scoprivano, ogni volta, uno scorcio diverso: un querceto da sughero arrampicato sulle colline, filari di fichi d’India e antichi muri a secco di grosse pietre rosse. Tante fermate in piccole stazioni infuocate, dove saliva e scendeva poca gente silenziosa.

Un viaggio iniziato con la Sardegna archeologica, con la visita all’imbrunire al nuraghe e alle tombe dei giganti di Iloi. È proseguito con i due intensi giorni dell’Ardia di Sedilo, in provincia di Oristano, durante i quali sono stato risucchiato e coinvolto nella spettacolarità e nella ritualità dell’evento, diventandone parte, senza possibilità di potermene defilare.

Ho corso anch’io a rotta di collo lungo il pendio della collina, dopo il primo passaggio dei cavalieri al galoppo, per conquistarmi uno dei pochi posti disponibili all’interno di “sa muredda”, una sorta di piccolo palco/altare di forma circolare, circoscritto da un muretto basso, intorno al quale si svolge la parte tattica e finale della manifestazione. Solo pochi riescono ad accedervi, in quanto la via rimane praticabile per pochi secondi fra le due fasi della corsa. Bisogna correre tanto, su una pendenza al limite della sicurezza, cercando di anticipare – molto poco cavallerescamente – vecchi, bambini e signore in Adidas che vengono giù dalla montagna come dei bolidi, rosse in faccia per l’attrito da impatto con la ionosfera. Quest’anno all’interno di sa muredda, con i sedilesi più fortunati, c’ero anch’io.

Chi mi ha visto rientrare a casa, impolverato di terra rossa e dalla cenere della segatura sparata delle salve di fucile, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto che dopo aver partecipato all’Ardia una volta non potrò più fare a meno di ritornare. É come se avessi fatto una forzatura al destino, sotto la bonaria intercessione di San Costantino. Fazza Ddiu!

Volendo assecondare questa predizione, oggi, a Cagliari, ho comprato la maglietta con i Quattro Mori. Non è un banale souvenir, da indossare a casa per dire che sono stato in Sardegna, ma sarà la mia “divisa” per la prossima edizione dell’Ardia. L’anguilla arrosto, quest’anno, proprio non ce l’ho fatta a mangiarla. Mi impegnerò la prossima volta!

Per i giorni passati alla Maddalena, scorrazzando nelle isole dell’arcipelago, ho già scritto (anche troppo) perché sarebbero valse anche solo le foto. Solo chi riparte dalla Maddalena può sapere quanto risulti breve il tragitto in traghetto fino a Palau e come appaia innaturale allontanarsi da quel paradiso.

Una citazione la merita, inoltre, l’ultima tappa del viaggio, l’Oasi di Biderosa, nella zona di Orosei (Sardegna centro orientale). Qui ho scoperto panorami ancora primordiali, quasi da pianeta inesplorato. È facile, in quel luogo, sentirsi migliori e perfettamente integrati in quell’equilibrio perfetto, si verifica uno scambio, una specie di osmosi, qualcosa di buono che si riceve e qualcosa di noi che rimane lì, per il solo fatto di esserci stati.

Infine una parola sulle case di Sedilo. Sono austere, con i loro muri di basalto e le persiane quasi sempre accostate, ma sono scrigni di affettività, di rapporti umani e di buon vicinato. I disegni, realizzati con i sassolini inseriti nella malta bianca, sono un indizio…

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Tartarughe obese

𝑻𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒉𝒆 𝒐𝒃𝒆𝒔𝒆 (𝒄𝒊𝒍𝒐̀𝒏𝒆 𝒃𝒐𝒛𝒛𝒆)

𝑬 𝒄𝒐𝒎𝒖𝒏𝒒𝒖𝒆 𝒆̀ 𝒗𝒆𝒓𝒐 𝒄𝒉𝒆, 𝒑𝒆𝒓 𝒗𝒊𝒗𝒆𝒓𝒆 𝒂 𝒍𝒖𝒏𝒈𝒐, 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒔𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒆𝒊 𝒄𝒐𝒍𝒑𝒊𝒕𝒐 𝒅𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒂𝒍𝒂𝒕𝒕𝒊𝒂 𝒈𝒓𝒂𝒗𝒆 𝒆 𝒊𝒏𝒗𝒂𝒍𝒊𝒅𝒂𝒏𝒕𝒆, 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒆𝒊 𝒄𝒂𝒅𝒖𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒔𝒐𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒂𝒔𝒂, 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒖𝒏 𝒔𝒂𝒄𝒄𝒐 𝒅𝒊 𝒑𝒂𝒕𝒂𝒕𝒆, 𝒔𝒖𝒍 𝒎𝒂𝒕𝒕𝒐𝒏𝒆 𝒔𝒑𝒐𝒓𝒈𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝒎𝒂𝒓𝒄𝒊𝒂𝒑𝒊𝒆𝒅𝒆, 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒂 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒑𝒐𝒄𝒐 𝒆 𝒃𝒆𝒏𝒆. 𝑵𝒐𝒏 𝒗𝒐𝒍𝒆𝒗𝒐 𝒎𝒆𝒕𝒕𝒆𝒓𝒎𝒊 𝒂 𝒅𝒊𝒆𝒕𝒂 𝒎𝒂 𝒑𝒐𝒊 𝒉𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒔𝒊𝒅𝒆𝒓𝒂𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒂 𝒍𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒖𝒏 𝒑𝒐❜ 𝒏𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒂𝒗𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆 𝒂𝒊𝒖𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒂 𝒔𝒎𝒂𝒍𝒕𝒊𝒓𝒆 𝒏𝒆𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒖𝒏 𝒃𝒓𝒐𝒅𝒊𝒏𝒐 𝒆 𝒉𝒐 𝒍𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒊𝒏𝒄𝒊𝒑𝒂𝒍𝒆 𝒄𝒂𝒖𝒔𝒂 𝒅𝒊 𝒎𝒐𝒓𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒊𝒍 𝒓𝒊𝒃𝒂𝒍𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒄𝒉𝒊𝒆𝒏𝒂, 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒏𝒐𝒓𝒎𝒂𝒍𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒔𝒊 𝒄𝒓𝒆𝒅𝒆, 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒆̀ 𝒍𝒂 𝒔𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒂 𝒄𝒂𝒖𝒔𝒂 𝒅𝒊 𝒎𝒐𝒓𝒕𝒆, 𝒎𝒂 𝒆̀ 𝒍❜𝒆𝒄𝒄𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒈𝒓𝒂𝒔𝒔𝒐. 𝑵𝒐𝒊, 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒕𝒓𝒐𝒑𝒑𝒐, 𝒑𝒓𝒐𝒅𝒖𝒄𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒓𝒊𝒔𝒆𝒓𝒗𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒆𝒃𝒐𝒓𝒅𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊, 𝒅𝒊 𝒅𝒊𝒆𝒕𝒓𝒐 𝒆 𝒅𝒊 𝒍𝒂𝒕𝒐 𝒆 𝒍𝒂 𝒏𝒐𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒑𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒔𝒊 𝒂𝒍𝒍𝒂𝒓𝒈𝒂 𝒗𝒐𝒍𝒆𝒏𝒕𝒊𝒆𝒓𝒊 𝒆, 𝒎𝒐𝒍𝒕𝒐 𝒓𝒂𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆, 𝒊𝒏𝒗𝒆𝒄𝒆, 𝒔𝒊 𝒓𝒆𝒔𝒕𝒓𝒊𝒏𝒈𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒆̀ 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒅𝒊𝒇𝒇𝒊𝒄𝒊𝒍𝒆 𝒅𝒊𝒈𝒊𝒖𝒏𝒂𝒓𝒆. 𝑳𝒂 𝒑𝒂𝒏𝒄𝒊𝒂 𝒅𝒊𝒗𝒆𝒏𝒕𝒂, 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒎𝒆𝒏𝒐 𝒊𝒏 𝒖𝒏𝒂 𝒇𝒂𝒔𝒆 𝒊𝒏𝒊𝒛𝒊𝒂𝒍𝒆, 𝒖𝒏❜𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝒔𝒂𝒍𝒗𝒆𝒛𝒛𝒂, 𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆 𝒔𝒆 𝒄𝒊 𝒓𝒂𝒑𝒑𝒐𝒓𝒕𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒂𝒍𝒍𝒆 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒉𝒆, 𝒖𝒏 𝒄𝒐𝒎𝒐𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒑𝒐𝒔𝒊𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒗𝒊𝒂𝒈𝒈𝒊𝒂 𝒄𝒐𝒏 𝒏𝒐𝒊 𝒆𝒅 𝒆̀ 𝒑𝒓𝒐𝒏𝒕𝒐 𝒂𝒍𝒍❜𝒖𝒔𝒐 𝒊𝒏 𝒄𝒂𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒊𝒎𝒑𝒓𝒐𝒃𝒂𝒃𝒊𝒍𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒆𝒔𝒕𝒊𝒆. 𝑨𝒍 𝒎𝒂𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐 𝒄𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒓𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒂𝒏𝒕𝒂𝒍𝒐𝒏𝒊 𝒏𝒖𝒐𝒗𝒊 𝒆 𝒖𝒏 𝒎𝒂𝒈𝒍𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒐𝒗𝒆𝒓𝒔𝒊𝒛𝒆. 𝑳𝒂 𝒑𝒐𝒗𝒆𝒓𝒂 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒂, 𝒊𝒏𝒗𝒆𝒄𝒆, 𝒔𝒆 𝒆̀ 𝒎𝒂𝒔𝒄𝒉𝒊𝒐 𝒈𝒊𝒂̀ 𝒓𝒊𝒔𝒄𝒉𝒊𝒂 𝒅𝒊 𝒔𝒖𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́, 𝒅𝒖𝒓𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒍❜𝒂𝒄𝒄𝒐𝒑𝒑𝒊𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐, 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒔𝒂𝒍𝒆 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒆𝒎𝒎𝒊𝒏𝒂, 𝒔𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒅𝒆𝒍𝒊𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒗𝒊𝒏𝒄𝒆𝒏𝒕𝒆 (𝒆 𝒕𝒓𝒐𝒗𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒏𝒆𝒓 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒂 𝒊𝒏𝒈𝒓𝒂𝒏𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒓𝒆𝒕𝒓𝒐𝒎𝒂𝒓𝒄𝒊𝒂) 𝒔𝒊 𝒑𝒖𝒐̀ 𝒓𝒊𝒕𝒓𝒐𝒗𝒂𝒓𝒆 𝒈𝒊𝒂̀ 𝒃𝒆𝒍𝒍❜𝒆 𝒓𝒊𝒃𝒂𝒍𝒕𝒂𝒕𝒐. 𝑺𝒆 𝒑𝒐𝒊 𝒊𝒍 ❞𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒐❞, 𝒎𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒗𝒂𝒍𝒆 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒍𝒂 𝒇𝒆𝒎𝒎𝒊𝒏𝒂, 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒕𝒊𝒑𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒆𝒔𝒂𝒈𝒆𝒓𝒂 𝒄𝒐𝒏 𝒍❜𝒊𝒏𝒔𝒂𝒍𝒂𝒕𝒂, 𝒂𝒄𝒄𝒖𝒎𝒖𝒍𝒂 𝒑𝒆𝒔𝒐 𝒊𝒏 𝒎𝒊𝒔𝒖𝒓𝒂 𝒔𝒖𝒑𝒆𝒓𝒊𝒐𝒓𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒑𝒂𝒄𝒊𝒕𝒂̀ 𝒅𝒆𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒄𝒂𝒓𝒂𝒑𝒂𝒄𝒆 𝒆 𝒎𝒖𝒐𝒓𝒆 𝒔𝒐𝒇𝒇𝒐𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒅𝒂𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒈𝒓𝒂𝒔𝒔𝒐. 𝑻𝒓𝒊𝒔𝒕𝒆 𝒏𝒐❓ 𝑬 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒂𝒄𝒄𝒂𝒅𝒆 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒆 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒉𝒆 𝒎𝒂𝒓𝒊𝒏𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒐𝒗𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆𝒓𝒐, 𝒂𝒏𝒛𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐, 𝒔𝒊𝒄𝒖𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒗𝒊𝒗𝒂𝒄𝒊 𝒆 𝒑𝒓𝒆𝒅𝒊𝒔𝒑𝒐𝒔𝒕𝒆 𝒂 𝒃𝒓𝒖𝒄𝒊𝒂𝒓𝒆 𝒈𝒓𝒂𝒔𝒔𝒊 𝒆𝒅 𝒆𝒏𝒆𝒓𝒈𝒊𝒆 𝒆 𝒏𝒐𝒏𝒐𝒔𝒕𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒊𝒍 𝒍𝒐𝒓𝒐 𝒄𝒊𝒃𝒐 𝒔𝒊𝒂 𝒂 𝒃𝒂𝒔𝒆 𝒅𝒊 𝒑𝒆𝒔𝒄𝒆 𝒂𝒛𝒛𝒖𝒓𝒓𝒐. 𝑪𝒉𝒆 𝒇𝒓𝒆𝒈𝒂𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒉𝒊 𝒉𝒂 𝒂𝒃𝒃𝒂𝒏𝒅𝒐𝒏𝒂𝒕𝒐 𝒈𝒂𝒎𝒃𝒆𝒓𝒐𝒏𝒊, 𝒄𝒆𝒓𝒏𝒊𝒆 𝒆 𝒂𝒓𝒂𝒈𝒐𝒔𝒕𝒆 𝒊𝒏 𝒇𝒂𝒗𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒔𝒈𝒐𝒎𝒃𝒓𝒊. 𝑯𝒂𝒊 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒂 𝒂 𝒅𝒊𝒓𝒆, 𝒑𝒐𝒊, 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒉𝒊 𝒉𝒂 𝒍𝒂 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒂 𝒉𝒂 𝒍𝒂 𝒑𝒂𝒏𝒄𝒊𝒂 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒂 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒉𝒂 𝒖𝒏 𝒇𝒊𝒍𝒐 𝒅𝒊 𝒈𝒓𝒂𝒔𝒔𝒐: 𝒆̀ 𝒖𝒏𝒂 𝒎𝒆𝒕𝒂𝒇𝒐𝒓𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒓𝒊𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒂 𝒊𝒍 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐 𝒓𝒆𝒂𝒍𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒕𝒂𝒓𝒕𝒂𝒓𝒖𝒈𝒉𝒆, 𝒍𝒆 𝒖𝒏𝒊𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒎𝒐𝒓𝒊𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒆𝒄𝒄𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒈𝒓𝒂𝒔𝒔𝒐 𝒑𝒖𝒓 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒏𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒖𝒏𝒂 𝒍𝒊𝒏𝒆𝒂 𝒊𝒏𝒗𝒊𝒅𝒊𝒂𝒃𝒊𝒍𝒆.

𝑨 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒐𝒔𝒊𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒓𝒆. 𝑵𝒐𝒏 𝒔𝒐 𝒂 𝒗𝒐𝒊, 𝒂 𝒎𝒆 𝒔𝒊𝒂 𝑭𝒂𝒄𝒆𝒃𝒐𝒐𝒌 𝒄𝒉𝒆 𝑰𝒏𝒔𝒕𝒂𝒈𝒓𝒂𝒎 𝒆, 𝒐𝒓𝒂, 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝑻𝒊𝒌 𝑻𝒐𝒌 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒐𝒏𝒈𝒐𝒏𝒐 𝒈𝒊𝒐𝒓𝒏𝒂𝒍𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒄𝒖𝒐𝒄𝒉𝒊 (𝒐 𝒔𝒆𝒅𝒊𝒄𝒆𝒏𝒕𝒊 𝒕𝒂𝒍𝒊) 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒓𝒆𝒕𝒆𝒏𝒅𝒐𝒏𝒐 𝒅❜𝒊𝒏𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒓𝒎𝒊 𝒓𝒊𝒄𝒆𝒕𝒕𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒖𝒄𝒊𝒏𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒊 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒆𝒔𝒔𝒂𝒏𝒐 𝒎𝒆𝒏𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒛𝒆𝒓𝒐. 𝑷𝒐𝒔𝒔𝒊𝒃𝒊𝒍𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊, 𝒎𝒂 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒐 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊, 𝒎𝒊 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒂𝒏𝒐 𝒊𝒏𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒄𝒆𝒅𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒔𝒊 𝒇𝒂 𝒍𝒂 𝒑𝒂𝒔𝒕𝒂 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒆 𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒃𝒐𝒏𝒂𝒓𝒂❓
𝑺𝒆 𝒊𝒎𝒎𝒂𝒈𝒊𝒏𝒐 𝒎𝒊𝒐 𝒏𝒐𝒏𝒏𝒐 𝒅𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒂 𝒖𝒏 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒎𝒊 𝒔𝒄𝒂𝒑𝒑𝒂 𝒅𝒂 𝒓𝒊𝒅𝒆𝒓𝒆. 𝑵𝒆𝒔𝒔𝒖𝒏𝒐 𝒂𝒗𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆 𝒐𝒔𝒂𝒕𝒐, 𝒅𝒐𝒑𝒐 𝒍𝒆 𝒓𝒆𝒔𝒕𝒓𝒊𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒊𝒎𝒂 𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒂 𝒈𝒖𝒆𝒓𝒓𝒂, 𝒅𝒊 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒓𝒈𝒍𝒊 𝒖𝒏 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒑𝒂𝒔𝒕𝒂 𝒃𝒊𝒂𝒏𝒄𝒂 𝒆 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒖𝒏 𝒄𝒐𝒏𝒈𝒓𝒖𝒐 𝒑𝒆𝒛𝒛𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒏𝒆 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒊𝒂𝒍𝒆 𝒄𝒐𝒕𝒕𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒐𝒓𝒆 𝒏𝒆𝒍 𝒔𝒖𝒈𝒐. 𝑪𝒐𝒎❜𝒆̀ 𝒄𝒉𝒆 𝒂𝒃𝒃𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒊𝒏 𝒅𝒊𝒈𝒏𝒊𝒕𝒂̀ 𝒅𝒂 𝒓𝒊𝒅𝒖𝒓𝒄𝒊 𝒂 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒆 𝒅𝒂 𝒅𝒐𝒗𝒆𝒓 𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒍𝒆𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒅𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒕𝒆𝒄𝒂𝒕𝒖𝒓𝒂❓ 𝑵𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒖𝒏𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒆𝒓𝒆 𝒊 𝒎𝒆𝒓𝒊𝒕𝒊 𝒆 𝒍𝒆 𝒂𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕𝒂̀ 𝒏𝒆𝒄𝒆𝒔𝒔𝒂𝒓𝒊𝒆. 𝑽𝒂 𝒅𝒂𝒕𝒐 𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆, 𝒑𝒆𝒓 𝒇𝒂𝒓𝒍𝒂 𝒗𝒆𝒏𝒊𝒓𝒆 𝒃𝒆𝒏𝒆, 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒂 𝒓𝒊𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒊 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒊, 𝒍𝒆 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒆𝒓𝒂𝒕𝒖𝒓𝒆 𝒆 𝒔𝒂𝒑𝒆𝒓 𝒅𝒐𝒔𝒂𝒓𝒆 𝒈𝒍𝒊 𝒊𝒏𝒈𝒓𝒆𝒅𝒊𝒆𝒏𝒕𝒊. 𝑴𝒂, 𝒔𝒂𝒏𝒕𝒐 𝑫𝒊𝒐, 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒑𝒓𝒆𝒄𝒐 𝒅𝒊 𝒔𝒖𝒑𝒆𝒓𝒄𝒂𝒙𝒙𝒐𝒍𝒆❗ 𝑨𝒏𝒅𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝒃𝒊𝒂𝒏𝒄𝒐, 𝒈𝒊𝒂̀ 𝒍𝒐 𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒍𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒐𝒍𝒂, 𝒄𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒗𝒊𝒆𝒏𝒆❓ 𝑬 𝒑𝒐𝒊, 𝒄𝒐𝒏 𝒍𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕𝒂̀ 𝒅𝒊 𝒑𝒆𝒄𝒐𝒓𝒊𝒏𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒅𝒂 𝒏𝒐𝒊 𝒔𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒅𝒊𝒔𝒄𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒆𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝒔𝒂𝒈𝒏𝒆 𝒕𝒐𝒓𝒕𝒆 𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒄𝒄𝒉𝒊𝒆 𝒆 𝒎𝒊𝒏𝒄𝒉𝒊𝒂𝒓𝒆𝒅𝒅𝒉𝒊 (𝒂𝒍 𝒔𝒖𝒈𝒐).
𝑳𝒂 𝒑𝒂𝒔𝒕𝒂 𝒊𝒏 𝒃𝒊𝒂𝒏𝒄𝒐, 𝒏𝒐𝒏 𝒍𝒐 𝒏𝒆𝒈𝒐, 𝒔𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒂𝒍 𝒔𝒖𝒅 𝒎𝒂 𝒆̀ 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒆𝒎𝒆𝒓𝒈𝒆𝒏𝒛𝒆, 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒔𝒄𝒐𝒓𝒏𝒐, 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒓𝒆𝒕𝒆𝒏𝒅𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒄𝒆𝒓𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒆 𝒔𝒄𝒖𝒐𝒍𝒂, 𝒂𝒃𝒃𝒊𝒏𝒂𝒏𝒅𝒐𝒄𝒊 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆𝒏𝒅𝒆 𝒆 𝒔𝒖𝒑𝒆𝒓𝒄𝒂𝒛𝒛𝒐𝒍𝒆.

𝑷𝒐𝒊, 𝒓𝒊𝒇𝒍𝒆𝒕𝒕𝒆𝒏𝒅𝒐𝒄𝒊 𝒃𝒆𝒏𝒆, 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒃𝒐𝒏𝒂𝒓𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒆 𝒏𝒆 𝒇𝒓𝒆𝒈𝒂❓ 𝑰𝒏 𝒔𝒆𝒔𝒔𝒂𝒏𝒕❜𝒂𝒏𝒏𝒊 𝒆 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒉𝒐 𝒎𝒂𝒊 𝒐𝒓𝒅𝒊𝒏𝒂𝒕𝒐 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒐 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒃𝒐𝒏𝒂𝒓𝒂 𝒂𝒍 𝒓𝒊𝒔𝒕𝒐𝒓𝒂𝒏𝒕𝒆, 𝒏𝒆𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒂 𝑹𝒐𝒎𝒂. 𝑨𝒏𝒛𝒊, 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 𝒎𝒆 𝒍𝒂 𝒔𝒆𝒓𝒗𝒊𝒓𝒐𝒏𝒐, 𝒂 𝒇𝒐𝒓𝒛𝒂, 𝒊𝒏 𝒖𝒏❜𝒐𝒔𝒕𝒆𝒓𝒊𝒂 𝒅𝒊 𝑻𝒓𝒂𝒔𝒕𝒆𝒗𝒆𝒓𝒆 𝒅𝒐𝒗𝒆 𝒕𝒆 𝒍𝒂 𝒔𝒑𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂𝒗𝒂𝒏𝒐 𝒑𝒆𝒓 ❞𝑴𝒂𝒄𝒄𝒉𝒆𝒓𝒐𝒏𝒊 𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒂𝒕𝒊𝒄𝒂❞ 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒆𝒓𝒂 𝒊𝒍 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒑𝒓𝒆𝒇𝒆𝒓𝒊𝒕𝒐 𝒅𝒂𝒍 𝒈𝒂𝒃𝒊𝒏𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏 𝒄𝒂𝒑𝒐 𝒅𝒆𝒍 𝑮𝒐𝒗𝒆𝒓𝒎𝒐 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒊𝒔𝒕𝒊𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍❜𝒆𝒑𝒐𝒄𝒂. 𝑵𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒉𝒆…

-𝑬̀ 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒄𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒑𝒆 – 𝒎𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒔𝒆 𝒍❜𝒐𝒔𝒕𝒆, 𝒈𝒐𝒏𝒈𝒐𝒍𝒂𝒏𝒅𝒐 – 𝒎𝒂 𝒄❜𝒆̀ 𝒖𝒏❜𝒂𝒈𝒈𝒊𝒖𝒏𝒕𝒂 𝒔𝒆𝒈𝒓𝒆𝒕𝒂…
𝑵𝒐𝒏 𝒔𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒇𝒓𝒂 𝒊 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒍𝒍𝒆𝒈𝒉𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒂𝒏𝒈𝒊𝒂𝒗𝒂𝒏𝒐 𝒎𝒊 𝒂𝒗𝒆𝒗𝒂 𝒔𝒄𝒆𝒍𝒕𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒄𝒐𝒏𝒇𝒊𝒅𝒆𝒏𝒛𝒂. 𝑺𝒊 𝒇𝒆𝒓𝒎𝒐̀ 𝒖𝒏 𝒂𝒕𝒕𝒊𝒎𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒗𝒆𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒎𝒊𝒂 𝒓𝒆𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆, 𝒔𝒊 𝒂𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒂𝒗𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒊𝒏𝒔𝒊𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒊 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒆𝒓𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒆 𝒇𝒐𝒔𝒔𝒆 𝒍❜𝒊𝒏𝒈𝒓𝒆𝒅𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒎𝒊𝒔𝒕𝒆𝒓𝒊𝒐𝒔𝒐 (𝒂𝒗𝒓𝒆𝒊 𝒅𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒗𝒊𝒏𝒐 𝒃𝒊𝒂𝒏𝒄𝒐). 𝑺𝒕𝒂𝒗𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒓𝒊𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒓𝒆…

-𝑺𝒆 𝒍𝒐 𝒕𝒆𝒏𝒈𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒍𝒆𝒊… – 𝒈𝒍𝒊 𝒓𝒊𝒔𝒑𝒐𝒔𝒊 𝒔𝒖𝒃𝒊𝒕𝒐 – 𝑺𝒆 𝒉𝒂 𝒅𝒆𝒄𝒊𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒗𝒆𝒍𝒂𝒓𝒍𝒐 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒐 𝒐𝒈𝒈𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒍𝒐 𝒇𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂 𝒄𝒐𝒏 𝒎𝒆. 𝑪𝒐𝒏 𝒎𝒆 𝒍𝒐 𝒔𝒑𝒓𝒆𝒄𝒉𝒆𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆…

𝑺𝒕𝒂𝒗𝒐 𝒂𝒄𝒄𝒆𝒏𝒏𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒊 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒎𝒊 𝒇𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂 𝒔𝒄𝒉𝒊𝒇𝒐 𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒃𝒐𝒏𝒂𝒓𝒂, 𝒄𝒐𝒏 𝒍𝒂 𝒄𝒓𝒆𝒎𝒊𝒏𝒂 𝒅❜𝒖𝒐𝒗𝒐 𝒄𝒓𝒖𝒅𝒐 𝒄𝒉𝒆, 𝒂 𝒎𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐𝒏𝒂𝒍𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆, 𝒐𝒅𝒐𝒓𝒂 𝒅𝒊 ❞𝒍𝒂𝒈𝒏𝒖❞ (𝒖𝒏 𝒐𝒅𝒐𝒓𝒆 𝒎𝒐𝒍𝒕𝒐 𝒔𝒊𝒎𝒊𝒍𝒆 𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍❜𝒂𝒄𝒒𝒖𝒂 𝒅𝒐𝒍𝒄𝒆 𝒔𝒕𝒂𝒈𝒏𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒈𝒐𝒗𝒆𝒓𝒏𝒂𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒕𝒕𝒊). 𝑴𝒂 𝒅𝒊 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒗𝒆 𝒏𝒆 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒆𝒓𝒐̀ 𝒅𝒐𝒎𝒂𝒏𝒊. 𝑺𝒂𝒓𝒐̀ 𝒄𝒂𝒖𝒔𝒕𝒊𝒄𝒐 𝒊𝒏 𝒎𝒐𝒅𝒐 𝒊𝒏𝒗𝒆𝒓𝒔𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒐𝒓𝒛𝒊𝒐𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒆𝒓𝒎𝒂𝒏𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒎𝒊𝒆𝒊 𝒍𝒊𝒗𝒊𝒅𝒊.

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Marzo (2018)

Marzo

Uscire di casa e realizzare che l’albero di mandorlo dall’altra parte del muro di cinta è già fiorito, a mia totale insaputa, mi lascia perplesso. Gli altri anni l’ho scrutato giorno per giorno. Quale demone mi ha chiuso gli occhi mentre le gemme si inturgidivano e si dischiudevano e io, ogni mattina, gli passavo distrattamente vicino?

“Sciroccu a mmare, muntagne chiare”, mi diceva un vecchio pescatore che aveva la barca al molo del lungomare di Otranto. Oppure era il contrario, cioè che è la vista delle montagne ad anticipare il cambio di direzione del vento. Dalla sommità della “Salita di Monticchio”, nei pressi del Santuario di Montevergine di Palmariggi, le montagne innevate dell’Albania sembrano altissime e incombenti sul canale d’Otranto. Oggi si vede anche la parte bassa della costa, la penisola di Karaburun che delimita il golfo di Valona e l’isola di Sazan, proprio di fronte a Otranto. Verso sud, invece, nel mezzo del riflesso dorato del sole, è apparsa Fanò, avamposto della Grecia, e, dietro di essa, si distende la sagoma bruna della bella Corfù (ma forse è solo la mia immaginazione a vederla).

Qualcuno ha investito e ucciso la volpe dalla grande coda bruna. Era sbucata dalla macchia inseguendo una preda e non vi ha fatto più ritorno. Le lunghe orecchie appuntite sembrano ancora vigili e il pelo della coda ondeggia alle raffiche dello scirocco. Il posto è proprio quello dove muoiono tanti giovani in motocicletta e la strada è sempre la stessa, quella strada bellissima che definiamo “dell’anima”, copiando un modo di dire inflazionato, dove la vita e la morte se la giocano alla pari, ingannandoti entrambe.

Il mare sembra calmo e luccicante, come un drappo azzurro di shantung di seta, visto dalla curva che dal falsopiano della Palascia ti fa scendere, con ampi tornanti, verso Porto Badisco. In realtà tutta la costa è orlata di schiuma bianca, “u mare de funnu”, che ti ricorda che solo ieri era ancora tempesta e che la bonaccia, attesa dai naviganti, tarderà ad arrivare.

“Dove due rocce spumeggiano d’acqua salata, mentre il porto rimane nascosto” declama Virgilio nell’Eneide (III, 552). Si dice che descriva proprio Porto Badisco, che avrebbe accolto lo sbarco di Enea, proveniente da Troia. Non ve lo cito io, ma il menù ingiallito e appiccicoso della trattoria, dove il piatto più gustoso che puoi assaggiare è quel raggio di sole che si fa strada nelle fessure del tendone e anticipa la primavera. I ricci sono fin troppo piccoli, eppure te li servono ugualmente. Non dovrei mangiarli, specie quando sono minuscoli, ma temo una reazione a catena e non sono ancora pronto a diventare vegano.

Porto Badisco sembra riempirsi e svuotarsi del mare, quando è scirocco. Le onde risalgono la spiaggia quasi fino a raggiungere l’erba, poi si ritraggono con uguale esagerazione. E’ bello addentrarsi nella piccola gola alle spalle della riva. La fioritura discreta dell’alloro, che nasconde i grappoli di fiori bianchi fra le foglie coriacee, e quella delle altre essenze spontanee della macchia, concentra profumi aromatici e dolciastri in quello stretto passaggio che si incunea fra due pareti verticali di roccia grigia. Sono odori inebrianti, da annusare nei pochi attimi di stasi fra una folata di scirocco e l’altra, fra un’onda e un’altra.

Ecco il mio bar ideale, un bar da litoranea. Piastrelle anni settanta e un pavimento in segato di marmi colorati. C’è un camino annerito, che si accende nelle serate d’inverno, quando il vento ulula, la sedia di plastica che convive con una vecchia panca di legno da oratorio e un tavolo di noce del primo novecento, lucidato dai gomiti degli avventori. L’eco di tante partite a carte e di incredibili racconti di mare.

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10 marzo 2021

GRAZIE A CHI CREDE.

Sono al Centro Vaccini, per accompagnare mio padre. Nell’attesa vedo sfilare, prima e dopo la vaccinazione, una generazione di bellissimi ottantenni (e più). Le nonne, vestite con i cappottini buoni, hanno fatto la tinta e hanno appena tolto i bigodini, come per andare a messa la domenica. Gli uomini ci tengono ancora a dare di sé un’immagine di coraggio e forza. Benvestiti anche loro, con le scarpe classiche lucidate con cura, ma non rinunciano, in questo tardo pomeriggio ventoso, alla comodità e al calore del piumino. Alcuni rifiutano il braccio che gli si offre, altri – dal passo più incerto – si fanno prendere per mano, come farebbero con un loro nipote. Tutti si affidano, fiduciosi, a medici e infermieri davvero accoglienti. Nessun parente può passare nell’area dove si inocula il vaccino, quindi niente foto ricordo, né selfie.

Nessuna lamentela per l’attesa, solo ringraziamenti e saluti all’uscita. Sono persone abituate alla concretezza e non sono per nulla passive nell’atteggiamento verso il vaccino. Sanno quello che fanno, basta ascoltarli, quel poco che possono dire dietro alla mascherina che ovatta le parole, per capire che ne hanno passate già tante nella vita e non vogliono perdere questo treno. Dovremmo, ancora una volta, imparare da loro. Stanno entrando in quella stanza da vecchi e ne stanno uscendo di nuovo bambini. Guardandoli uscire, a piccoli gruppi, non vedo più le loro acconciature, i cappottini e le scarpe lucide ma faccio un salto indietro nel tempo, nel primo cinquantennio del Novecento e vedo grandi occhi sorridenti, lunghe trecce e fiocchi di nastro colorato. E poi, grembiulini quadrettati, visi malandrini e calzoncini corti con le ginocchia a vista, incrostate per le ripetute cadute durante i giochi. È così, con questa immagine, che avrei girato un cortometraggio fantastico e surreale sul tema della vaccinazione. Un ritorno, se non a una nuova vita, almeno alla speranza di una vita normale. Una sorta di riedizione, riveduta e corretta, di Cocoon.

Auguri e grazie a tutti loro di esistere ancora, di donarci ancora il privilegio di sentirci figli e nipoti. Il loro voler continuare vivere, pur con i disagi e gli acciacchi dell’età, non è solo istinto privato di conservazione, è desiderio di condivisione, di essere ancora parte di una comunità, forse il riferimento più genuino. Che fossero loro i primi glielo dovevamo, per tutti i nonni che sono morti nelle RSA o che sono arrivati troppo tardi nelle terapie intensive, per quelli mal curati, per quelli che non hanno potuto più riabbracciare i loro affetti.

Grazie ai Medici e agli Infermieri. Grazie alla Scienza e a Dio, per chi crede. Grazie a chi crede.
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L’antagonista

Storie di Running: l’antagonista

Devo essere sincero, in tanti anni che ho corso o camminato, mi è capitato poche volte un “caso complesso”, come quello che segue, ma quelle volte è stato sempre uno spasso. Capitano, più spesso, micro competizioni che si risolvono nell’arco di pochi minuti. Chi corre abitualmente sa a cosa mi riferisco, non può non aver incontrato un competitore seriale. Tu stai andando per la tua strada, camminando o correndo, e incontri lui, che ti trasforma nel suo inconsapevole antagonista.

L’incontro è quasi standard e sembra scritto su un copione ricorrente, ambientato – ovviamente – su un percorso da running frequentato da molte persone. Anche lui sembra godersi la corsa in apparente scioltezza, con quel bel passo felpato che sembra sfiori il terreno senza sforzo, a una velocità di un pelo inferiore della tua, per cui l’avvicinamento è lentissimo tanto che puoi anche pensare che finirai l’allenamento senza raggiungerlo, per quanto sono regolari i passi di entrambi e tanto basso il differenziale di velocità.

Ma ecco che, mentre tu stai davvero per sopraggiungergli, il Tizio si volta un attimo, allarmato dal tuo scalpiccio, ti guarda con gli occhi sbarrati e realizza che, a breve, gli passerai davanti. Allora Inizia ad accelerare, aumentando il passo gradualmente, solo per aumentare la distanza fra lui e te, per saggiare le tue potenzialità. Ogni tanto si volta indietro, sbilanciando la sua corsa per un attimo, godendo della nuova distanza che ha creato fra voi due. È come se ti dicesse – Mi hai raggiunto una sola volta nella tua vita, ma solo perché perché io andavo pianissimo…-.

A questo punto l’antagonista potrebbe già ritenersi soddisfatto, lasciandoti perdere, oppure si potrà affezionare e ti rimarrà davanti per tutto il tempo che correrai, e se capirà che la sua superiorità atletica è davvero schiacciante, si esibirà in qualche ripetuta, sempre voltandosi per vedere se stai apprezzando la sua performance, scalerà anche una piccola salita fuori percorso, si fermerà a fare stretching appoggiato a un muretto, facendoti andare avanti per poi raggiungerti a rotta di collo, superarti e piazzarsi davanti di quella decina di metri che marca la sua superiorità. Fa come il gatto che con la zampetta tocca delicatamente il topo che si finge morto per suscitargli un anelito vitale e poterlo finire in combattimento. Avete presente quando Mister Bean fa sfoggio della sua carta di credito o quando è sicuro dei suoi fatti e fa vedere al mondo le sue conquiste? È più o meno lo stesso atteggiamento, quello di ostentare delle cose banali che per lui sono importanti ma che agli altri non interessano più di tanto.

Che fare quando ci si trova nella situazione? Si può invertire il senso di marcia, interrompendo l’esperienza, si può accettare la sfida e cominciare a competere veramente, e non è detto che dal connubio casuale di due persone con spirito agonistico non nascano degli allenamenti proficui, oppure si può assecondare l’antagonista, godersi le sue esibizioni e registrare i fatti (per poi scriverli).

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Parte Due

Parte 2

Passeggio lungo il molo costeggiando gli ormeggi, dove alcuni pescatori, a bordo dei loro gozzi, stanno sistemando le reti. Qualcuno di loro ha già finito e si è steso a prendere il sole sulla prua piatta della sua barca; ora si sottopone volentieri allo sfottò dei suoi colleghi. Al ritorno scelgo il percorso dalla parte opposta, lungo i frangiflutti, e poi risalgo la ripida serpentina che porta alla piazzetta. In cima alla rampa di gradini, che mi affranca dal percorrere a piedi l’ultimo tornantino, chi ritrovo? L’arzillo anziano che aveva bloccato, giù al porto, l’auto dei Carabinieri. Ha fatto accomodare la moglie su una panchina all’ombra e sta girando, con passo svelto, in lungo e in largo per la piazza, forse ancora indeciso su quale bar scegliere per ordinare il caffè. Ne perdo le tracce ed è una benedizione perché due storie da seguire contemporaneamente sono troppe anche per me.
Mi cerco un tavolino a mezz’ombra e attendo che il cameriere si accorga di me si avvicini per l’ordine. L’atmosfera si tinge di giallo perché ben presto mi accorgo che, alle mie spalle, sta accadendo qualcosa. Si tratta di persone che rallentano il passo, di sopracciglia che si aggrottano, di sguardi preoccupati, di mezze frasi scambiate fra i camerieri, anche di quelli che lavorano nel locale e che, di tanto in tanto, si affacciano e riferiscono ai colleghi all’interno. Infine una persona esce dal bar, si posiziona al centro della piazza e guarda insistentemente verso la strada d’accesso, come se fosse in attesa di qualcuno. Sono deciso a non voltarmi, qualunque sia la situazione non voglio farmi prendere dall’ansia prima di aver di finito il mio gelato, ma poi il quadro che si va delineando mi costringe a cercare di capire cosa stia realmente accadendo. Mi volto e, complice il sole radente, apparentemente non vedo nulla di cui allarmarsi; poi capisco che l’attenzione di tutti converge su un signore distinto, fra i cinquanta e i sessant’anni, che è seduto a un tavolino e mi dà le spalle. Di fianco a lui ci sono due persone in tuta da ginnastica, un uomo e una donna, che sembra lo stiano accudendo. Lei gli tiene una mano fra le sue parlandogli dolcemente, sorridendogli sempre, come se non volesse smettere di sollecitarlo, forse per impedire che si addormenti. L’uomo, invece, cerca di stimolarlo mimando con le mani delle azioni convenzionali: camminare, alzarsi, bere un caffè.

-Piombo assoluto! – si lascia scappare un cameriere – Non reagisce proprio e non sa dire di chi è e da dove viene!-
Non si sa chi sia, né da dove venga, quindi. Forse è un turista che ha perso momentaneamente la memoria per un’improvvisa ischemia. Potrebbe essere arrivato con un mezzo proprio, forse con una delle tante auto parcheggiate lungo la piazza, o avere affittato una camera in un albergo, oppure essere ospite di qualcuno. Potrebbe avere una famiglia che lo sta aspettando, visto che l’orario di pranzo è ormai passato da un bel pezzo mentre l’uomo è in quella piazza non si sa esattamente da quando.
In realtà nulla può confermare che si tratti di uno straniero, visto che l’uomo del mistero non ha ancora proferito parola, anche se ha caratteri somatici nordici e un taglio di capelli particolare, che da noi non si pratica. Quello che sembra evidente è che non è un disagiato, né un nomade senza dimora, perché è curato e ben vestito, ha scarpe nuove e pulitissime. Qualunque sia la sua provenienza, questa mattina lo sconosciuto si è alzato da un letto, si è lavato e si è vestito accuratamente prima di uscire di casa o dall’albergo o, ancora, prima di prendere un aereo o un qualsiasi altro mezzo di trasporto che lo ha condotto a Castro. Nonostante gli sforzi e i tentativi della coppia in tuta da ginnastica di catturarne l’attenzione, lo smemorato non reagisce ad alcuna sollecitazione verbale e fisica. Lui continua a fissare il vuoto o forse un punto dell’orizzonte, proprio in mezzo al mare, verso sud. È davvero encomiabile il loro modo di fare, la dolcezza dei loro gesti. Solo l’uomo (che io ritengo sia un medico), guardando l’orologio di tanto in tanto, tradisce una certa preoccupazione mentre la donna non smette mai di parlare e di stringere la mano al suo protetto, come se fossero amici da sempre.
Poi, finalmente, la persona che attendeva al centro della piazza inizia a gesticolare e, dopo pochi istanti, arriva un’ambulanza del 118. I sanitari, dopo poche verifiche sul posto, riescono a farlo alzare in piedi e lui, docilmente, si fa condurre fino all’interno dell’ambulanza.
Spero che l’interessato, con le cure sanitarie, abbia ritrovato presto la memoria e la parola. Mi sarebbe piaciuto sapere quello che è accaduto dopo, anche perché il lieto fine auspicato va ipotizzato e solo immaginato. Perché scrivere una storia senza la fine, allora? Per trasferire la propria “ansia” anche a chi la leggerà? Nella sua sfortuna, nell’essere stato colto da un malore proprio in un momento di godimento, quell’uomo si è imbattuto in due persone sensibili e competenti, quelle che gli sono state vicino, probabilmente due medici che erano là per godersi il primo sole nella piazzetta, proprio come lui, e si sono trovati coinvolti nel suo primo soccorso. Probabilmente a lui non rimarrà nulla, una volta guarito, del suo “momento” di assenza e non ricorderà neanche chi gli ha fatto da scudo, perché nell’incoscienza non si facesse male, e gli ha tenuto la mano perché non gli rimanesse neanche per un attimo la sensazione, anche se solo inconscia, di isolamento e solitudine. Anche testimoniare tutto questo può costituire un finale degno per la storia. O no?

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Dopo il disgelo

Parte 1

Dopo aver percorso la discesa ripidissima che porta al porticciolo, mi accorgo che qualcuno, in barba a qualsiasi regola scritta sui cartelli segnaletici, e anche alla logica più elementare, ha parcheggiato una vecchia (ma molto ben tenuta) utilitaria proprio nel punto in cui il muretto laterale s’interrompe per consentire l’accesso alla parte posteriore del molo, la zona dove i bagnanti prendono il sole o passeggiano lungo i frangiflutti. L’anziano e distinto proprietario è sceso fin giù al porto per mangiare un panino in santa pace con la sua augusta signora, a portata di mare, approfittando della bella giornata. Peccato che una spettacolare Giulia dei Carabinieri, che mi fa andare in brodo di giuggiole quasi come le vecchie Giulia degli anni sessanta, entrata in quella zona in perlustrazione dalla parte opposta, abbia proprio bisogno di attraversare quel passaggio per ritornare sulla strada. I militari, semi distesi sui sedili (giacché sulla Giulia si guida da sdraiati e, volente o nolente, quella posizione fa assumere anche una certa aria rilassata), molto elegantemente si limitano a dare un’accelerata in folle, giusto per scuotere dal torpore le iguane stese o sedute lungo il muretto, alcune con le gambe penzoloni sul mare, che si godono il primo sole del post disgelo. Lui che, impeccabile ed elegante nel suo pulloverino in cachemire, ha già finito il suo panino e sta allungando il collo ai raggi benefici e ristoratori, si volta e realizza di aver chiuso il varco ai Carabinieri. Si alza dal gradino sul quale era seduto e accorre con un passo svelto che non tradisce certamente la sua reale età. Accenna un sorriso che non supplisce le scuse dovute ed entra in macchina con lo stesso piglio di Christian De Sica quando, colto sul fatto, definisce “burle” le sue grasse malefatte. Ed è qui che l’età reale del signore si manifesta: non si è portato le chiavi dietro. Quindi, sorridendo di nuovo ai Carabinieri (che hanno, evidentemente, riconosciuto la persona e si dimostrano oltremodo pazienti) ritorna alla sua postazione, dove è seduta la moglie che continua a mangiare il suo panino con un po’ di imbarazzo, nascosta dietro ai grandi occhiali da sole e a una messa in piega perfetta. “Noblesse oblige”, è vero, ma non si aspettava neanche lei, avvezza ai ristoranti di livello, un muretto già così affollato a metà febbraio. Il marito prende le chiavi dalla borsa e ritorna sui suoi passi. Accende il motore e ingrana la retromarcia. L’auto arretra velocemente, tanto che, per un attimo, temo possa finire nello scivolo di varo retrostante. Poco male, c’è la bassa marea, che più bassa non si può, e il rischio è evitato.
Liberata dall’impaccio, la Giulia dei Carabinieri riparte con un borbottio sornione dei tubi di scarico mentre il vegliardo in utilitaria va su e giù nello spiazzo, fra le barche a secco e i tavolini dei chioschi, finché non trova un nuovo posto, proprio sotto al cartello di divieto di sosta per caduta massi. Perfetto…

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TORCI U VINCHITEDDHU… (Dai forma al vincastro…)

Torci u vinchiteddhu

“Torci u vinchiteddhu quannu è tenareddhu” diceva mio nonno, rivolto a mia madre, quando assisteva a un mio capriccio e voleva dire la sua senza entrare nello specifico, come se fosse un linguaggio in codice fra adulti.

Nel dialetto salentino “vinchiteddhu” è il diminutivo di “vinchiu” (dal lat. vinculum) che è il pollone, o vincastro, che spunta alla base dell’albero d’ulivo e cresce in fretta, dritto e flessuoso. “Raccolto” al momento giusto, veniva, e viene tutt’ora, adoperato per realizzare l’intelaiatura dei cesti in vimini. Per potergli dare la forma voluta è necessario, però, utilizzarlo quando la fibra è molto flessibile e non ha ancora raggiunto la consistenza legnosa.

La metafora che sottostà al proverbio dialettale (tradotto: dai forma al vincastro quando è ancora tenero) è lampante: educa tuo figlio quando è piccolo perché da grande sarà impossibile disciplinarlo! I nostri nonni, appena alfabetizzati, dicevano, quasi un secolo fa, quello che oggi scrive Crepet come se fosse una verità rivelata, e cioè che l’assenza di regole in famiglia ha portato l’educazione dei figli allo sbando assoluto. Sono “rivelazioni” sgradite che stanno creando scandalo e scompiglio fra le mamme delle chat scolastiche e fra i papà delle Play Station, agghindati da adolescenti bimbominchia, che scaricherebbero volentieri tutta la loro responsabilità a un soggetto impersonale: alla “società dei consumi” (che pure è corresponsabile con dolo).

“U vinchiu”, ripulito e tagliato nelle giuste dimensioni, era anche un frustino, utilizzato per guidare e contenere gli animali, temuto strumento di punizione – insieme alla “curiscia”, che è la cintura dei pantaloni – dei ragazzi troppo esuberanti o disubbidienti. In questo i nostri avi erano avvantaggiati perché avevano strumenti di correzione certamente più immediati dei nostri che sono basati sulla capacità di persuasione. Punizioni corporali che oggi sarebbero improponibili, oltre che illegali.
Si racconta (ogni regione ha la sua versione, con minime variazioni su tema) che quando, quella volta, la sposa era tanto alta da non riuscire a entrare in chiesa e il futuro marito già piangeva perché non voleva che le venissero segate le gambe, come proponevano i saggi del paese, un giovane fece la sua fortuna assestando un colpo “de vinchiu” dietro alle ginocchia della ragazza che, colta di sorpresa, piegò le gambe e riuscì a entrare dalla porta principale. Ma questa è un’altra storia.

La Phalaenopsis non è un ulivo ma il criterio per portare i futuri fiori là dove voglio che sboccino, è lo stesso. Anche lo stelo del fiore dell’orchidea va seguito centimetro per centimetro, piegandolo sul tutore di bambù finché è tenero. È anche fin troppo tenero e delicato, basta un gesto maldestro per spezzarlo e mandare in fumo un anno di cure.

Accudire l’orchidea è un esercizio zen, al limite del parossismo, e non hai neanche un sasso levigato da muovere da un lato all’altro di un giardinetto in miniatura o il rastrellino per disegnare le onde sulla sabbia. A volte mi chiedo che senso abbia coltivare qui, con tanta dedizione, delle piante che, nel loro ambiente, crescono spontaneamente e perché ci ostiniamo a portare verso l’alto uno stelo che la natura ha strutturato come ricadente. Come si dice per certe esperienze al limite? Se non ti ammazza, ti fortifica. La scoperta è che può fortificare anche l’esercizio che apparentemente è il meno faticoso, il più ripetitivo e banale. In realtà abbiamo tutti bisogno di piccole cose da fare (e di silenzio). Mi ricorda Endrigo…

La fioritura dell’orchidea in foto è attuale, è appena iniziata e andrà avanti per un paio di mesi. La pianta ha un mome proprio e ha cinque anni.

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Non rovinatemi la festa

Il mio oroscopo di oggi è particolarmente favorevole. Mi dice che ho ritrovato il mio equilibrio. Un’altra volta, magari…

Ci sono persone basiche, che vivono di cose semplici. Per questo, anche quest’anno, non rovinatemi la festa. Mangerò panettone, cartellate, porceddhuzzi, struffoli e mostaccioli morbidi fin quasi a scoppiare. Il vecchio stereo di famiglia macinerà album natalizi di Bing Crosby e Frank Sinatra, con i deliziosi arrangiamenti degli anni 50. Farò file chilometriche nei negozi per comprare “buttanate” che durante tutto il resto dell’anno avrei pagato di meno. Mi raccomanderò per avere il pesce di pasta di mandorla fuori misura. La mia bancomat si arroroventerà.

Ho messo, mentalmente beninteso, in modalità “off” (non ho cancellato nessuno, mi limito all’indifferenza davanti all’insofferenza), fino al 6 gennaio compreso, tutti i pochi nichilisti autentici e i tanti snob che poi, nel segreto delle loro case, avranno comportamenti incoerenti. Spenderanno come tutti gli altri e si daranno da fare in cucina con la “lavana” e il mattarello, forse si vestiranno di babbinatale e befane (beh…per il quieto vivere ritiro le befane!) per la gioia dei figli e dei nipotini.

Dico subito, pertanto, che non vi credo. Sarà il maltempo, oggi è forse la giornata degli odiatori del Natale? Quella dei veri e finti nichilisti e degli snob? Dirlo a tutti non dovrebbe recare quel gran sollievo che sembrano provare, come se dovessero affrontare un lungo periodo di astinenza da qualcosa. Dalla tranquillità dei giorni tutti uguali, dalle luci standard, dalle minestrine insipide? Tutti coloro che esercitano un’avversione alle feste lo fanno, va riconosciuto, senza causare reali danni al prossimo, anzi, offrendo argomento di chiacchiera, come sto facendo io, per l’appunto. Forse molti di loro sono solo soli, o tristi, o stanchi. Oppure fluttuano, ormai, in una bolla intellettuale autocostruita, impermeabile agli usi e agli abusi tribali. In realtà ognuno può vivere questo periodo secondo la tradizione di stampo cattolico, fatto di riti religiosi e di altri riti più consumistici e meno intimistici, concedendosi qualche eccesso optional, oppure facendo finta di nulla, giacché nulla gli viene realmente sottratto, ascoltando la pizzica proletaria a palla per non essere raggiunto dalle note di una pastorale, mangiando frise, e fave & cicoria, come si fa tutto l’anno, con grande beneficio per la salute. Ma forse è proprio l’euforia altrui che crea un minimo disagio, il bisogno di silenzio che fa star bene con i ricordi. Io penso che coloro che soffrono davvero, in questo periodo, per qualunque serio motivo, non abbiano alcun reale beneficio a dileggiare il Natale, né sentano l’esigenza di manifestarlo. Lo vivono (come dire?) con rassegnazione o malinconicamente. Per questo non credo, o credo poco, a tutti gli altri.

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Aforismi

Se argulu te fica te faci… (Se ti ergi ad albero di fico…)

Si discorreva con il Cugino grande, quello che sa dosare la saggezza con il piacere di vivere dando il giusto peso alle cose che accadono, sui rapporti che si interrompono senza motivo. Lui, il Cugino, ha speso qualche parola sulla necessità di dialogo, sul tentativo necessario di superamento delle incomprensioni, ma poi, vedendomi scettico, mi ha regalato un bellissimo aforisma che non conoscevo.
Ebbene sì, almeno una volta nell’esistenza può capitare che qualcuno, inspiegabilmente, ti congedi definitivamente – e senza una motivazione, anche se richiesta – dalla sua vita e da tutto quello che prima rappresentavi per lui (o, forse, solo da quello che rappresentava lui per te). Che sia una semplice conoscenza, un’amicizia o, addirittura, un legame di parentela, se una persona ti toglie il saluto o, più semplicemente, mette in atto ogni strategia utile per evitare di incontrarti, anche solo con lo sguardo, se non interviene un immediato chiarimento la rottura diventa spesso definitiva. Da lì parte l’indagine. Inizi con l’esame di coscienza, cercando di capire dove, come e quando hai fatto un torto nei confronti dell’altro. Poi allarghi l’indagine, sforzandoti di ricordare se hai parlato (o sparlato) di lui con qualche guastatore, e quando – infine – ti senti a posto con la coscienza e hai anche sondato senza esito le amicizie comuni, ti rassegni e ti adegui.
È proprio questo, adeguarsi recuperando un po’ del proprio orgoglio, che suggeriva una certa “massara” Pina, proprietaria di una masseria nelle vicinanze di Maglie, che riforniva le famiglie di latte, frutta e verdura negli anni cinquanta/sessanta d.s.s.-.
L’aforisma della massara Pina, salvo smentite, dovrebbe essere originale e dice così: SE ARGULU DE FICA TE FACI, ARGULU TE ME NE FUTTU DIVENTU! traduzione: Se ti ergi ad albero di fico, io diventerò l’albero del “Me ne fotto”. L’aforisma, in realtà, ha più ampia valenza e un vasto campo d’applicazione: offre un ottimo antidoto a ogni tipo di superbia subita.

NB L’albero del fico era considerato importante nell’economia famigliare, una vera ricchezza perché assicurava i frutti freschi d’estate e, con quelli secchi, una riserva di alimento calorico per l’inverno. Non è un caso che venga preso ad esempio.

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Maestri

Ieri, girando nel cimitero, mi sono imbattuto nella tomba del mio primo maestro elementare. Lui era così alto e magro, e con un sorriso sempre stampato sul volto, che la sua magrezza e il suo sorriso non avevano consentito che il tempo, mentre lui invecchiava anagraficamente, lo cambiasse più di tanto. Neanche le rughe, da quasi tutti odiate e da pochissimi amate (quantomeno a parole) erano riuscite a incidere la sua faccia. La foto di ceramica della tomba, infatti, mi ha restituito suo aspetto senza età. Impossibile stabilire l’epoca dello scatto: l’età è quella di un giovane di settant’anni, o di un anziano di trenta… In realtà era già avanti negli anni quando lo conobbi e, nel tempo che seguì, mitizzai la sua figura e forse scambiai per gioventù la vitalità e la sua straordinaria capacità di raccontare e di illustrare i suoi racconti realizzando disegni alla lavagna, con i gessi colorati, più belli dei dipinti e delle illustrazioni dei libri.

La scuola elementare e l’incontro con il maestro furono, per me, il primo vero impatto con il mondo esterno, giacché nessuno era riuscito a convincermi a frequentare regolarmente l’asilo, nonostante ci lavorasse la mia zia preferita che, ovviamente, non poteva starmi dietro tutto il tempo.
Il “professore” fece capire subito alla classe come dovevano andare le cose. Lui era fra quelli che avevano la fama di essere buoni e la cosa ci confortò . Lo fece dosando, con un’abilità che avevano solo pochi maestri a quei tempi, la dolcezza ai pizzicotti, le carezze alle bacchettate sulle mani (nei casi più ostinati) e i complimenti per i compiti ben fatti a violenti colpi di canna in testa, che servivano a richiamare i distratti durante le sue spiegazioni. La lunga canna, in particolare, gli serviva per raggiungere dalla cattedra, o dalla lavagna, le file di banchi più remote. I colpi arrivavano così secchi e inaspettati sulla testa degli alunni che il fragore dell’impatto sui giovani crani, in verità spesso poco avvezzi allo shampoo, riecheggiava per tutta l’aula. La punta dell’asta, a volte, si rompeva e si sbriciolava in pericolose schegge e piccoli frammenti che ricadevano sul banco o rimanevano impigliati nei capelli dei ragazzi. E l’alunno non solo si buscava la mazzata a scuola ma se la canna – rompendosi – si accorciava tanto da non poter più essere utilizzata, spettava a lui rimpiazzarla con una nuova. Quindi era il genitore del bambino percosso per ultimo a doversene procurare una nuova, cosa abbastanza semplice – all’epoca – perché le canne di palude erano ancora utilizzate in quasi tutte le case per svariati usi: tendere e sollevare i fili carichi di lenzuola stese ad asciugare, pulire dalle ragnatele i soffitti alti dopo aver appallottolato uno straccio sulla sommità, costruire “cannizzi” per seccare al sole frutta e ortaggi. Immaginatevi il momento in cui, una volta a casa, il bambino, era costretto a chiedere al papà di portare a scuola una canna nuova. Era una sorta di confessione di non essersi comportato bene, con tutte le conseguenze del caso che non potevano prescindere da minacce, sgridate o ulteriori punizioni corporali.
Se dovessi ora dare un nome al sentimento che mi suscita il ricordo per il maestro Mario non ho dubbi: affetto. E non perché ricordo perfettamente le sue lacrime il giorno che ci comunicò che era costretto a lasciarci, né perché si portò a casa, fra i suoi effetti personali, un mio disegno che aveva incorniciato ed esposto in classe.
Quando vedo i filmati in cui gli alunni di oggi, ritenendosi impunibili nella Società e intoccabili in famiglia, bullizzano ed esasperano gli insegnanti con minacce esplicite, costringendoli a subire pubbliche derisioni, riprese puntualmente dai cellulari, oppure facendone bersagli da colpire come al luna park, non posso fare a meno di pensare che non hanno avuto maestri come Mario e genitori che, a casa, invece di chiamare l’avvocato dopo aver chattato nelle chat dei genitori e nei gruppi ristretti dei fidati che la pensano uguale, completavano l’opera dell’insegnante facendo capire ai figli quale fosse la direzione giusta.

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La sfida

A chi si è prodigato per spiegarci quanto nobile, storica e ormai ecumenica fosse la festa di Halloween, io rispondo che – pur osservando attentamente gli accadimenti, i ritrovi e le sfilate – non ho trovato nulla di particolarmente elevato nelle “celebrazioni” appena concluse. Solo riferimenti all’horror commerciale e gadget a volontà. Al confronto, le nostre classiche mascherate di carnevale appaiono come monumenti alla cultura. Vuoi mettere davvero Freddy Krueger, Joker o Chucky, la bambola assassina, contro Arlecchino, Pulcinella e Colombina? Per non parlare dei Krampus, gli straordinari demoni dell’Alto Adige, antagonisti di San Nicholaus, che da cinquecento anni puniscono i peccatori che incontrano per strada frustandoli, e dei Mamuthones e degli Issohadores della Sardegna, ruoli che presuppongono anni di gavetta e di preparazione, oltre che eccezionale resistenza fisica.
Le antiche tradizioni di stampo anglosassone, ritenute sovrapponibili alle nostre ritualità dei Santi e dei Morti, e l’ideale apertura del varco spazio-temporale, che avvicinerebbe fisicamente, per una sola notte all’anno, i vivi e le anime dei morti… È tutto rimasto nelle vostre righe scritte! Halloween 2022 è stato solo e soltanto un giro di soldi e di prodotti scadenti Made in China.

Ora, a tutti coloro che ci hanno dato lezioni su Halloween, propongo una nuova sfida e un nuovo appuntamento con le tradizioni e la cultura d’oltreoceano. Il Venerdì Nero, dove il “nero” è da intendere nell’accezione finanziaria positiva del termine, perché il fine dell’iniziativa è quello di riportare in attivo, invece che lasciarli in “rosso”, i conti correnti dei commercianti americani, in un mese in cui notoriamente si registravano vendite vicine allo zero. In cambio del trasferimento di risorse dai conti “neri” dei privati a quelli “rossi” delle aziende, gli acquirenti beneficiano di una sorta di anticipo dei saldi di fine stagione. La “spiegazione” l’ho fornita già io, in anticipo, in modo che chi si voglia cimentare abbia anche il compito facilitato.

Il 25 novembre, pertanto, c’è l’altra celebrazione aliena da suffragare a vostra cura:

Il BLACK FRIDAY

Fiato alle trombe Turchetti!

A proposito di tradizioni aliene. Metto su il tè. Un Earl Grey al profumo di bergamotto. E con lo zucchero bianco, quello volgare perché raffinato (toh! Un ossimoro!). Perché il tè amaro, o dolcificato, non mi sa di nulla.

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Seguire la stella

Seguire la Stella (2018)

Mi porto avanti perché ho visto in giro, più o meno pronti per essere esposti in vetrina, i gadget di Halloween: zucche, vestiti, pugnali insanguinati, allestimenti vari, mostri e maschere.

Non vi offendeterete se, anche quest’anno, non parteciperò alle feste di Halloween e neanche all’Horror Happy Hour. Lo devo a me stesso e al mio essere stucchevolmente tradizionalista. Amo le tradizioni dei popoli, anche quelle pagane, quelle celtiche nordeuropee e, perché no, anche quelle del Nuovo Continente. Ma finché rimangono circoscritte nei luoghi d’origine. Le importazioni, in questo come in altri campi, le ho trovate spesso dannose, quasi sempre caricaturali, e qualche polemica l’ho anche intavolata, criticando le improbabili “octoberfest” salentine, ma non la nostra ottima birra artigianale, che si può bere in tante occasioni tutto l’anno, per esempio al Mercatino del Gusto. Non voglio rovinare la festa agli altri, per quanto non condivida, ma dico la mia opinione.

Non sono mai stato un cattolico praticante ma cercherò, per fine ottobre, di rispettare i Santi, anche quelli che sono sulla terra, e avrò un pensiero per i Morti. E poi ancora, a risalire, anche nell’umore, verso San Martino. Da lì la tirata fino a Natale sarà un crescendo di ricordi, di emozioni da riscoprire (accade sempre, anche se ostenti la più cinica disillusione e hai già da tempo in mano le redini della slitta), di coccole e di pensieri che si faranno, per forza, positivi. Anche questo ha una forte componente commerciale, ma perché non approfittare di quell’atmosfera positiva, per quanto artificiale possa apparire, per cercare di uscire dalla morsa del fatalismo negativo che, a volte, ci assale? Per essere sereni, in fondo, può bastare anche una sola persona disposta a condividere con noi dei momenti di vita, così come la viviamo, ad accettarci per quello che siamo, ascoltarci e farci compagnia. Che sia un parente, un amore o un’amicizia non conta. Il resto è sovrabbondanza e, andando avanti nella vita, tutto va a collocarsi al giusto posto in una scaletta ideale dei valori.

Halloween. È la festa dei genitori cretini, in chiave horror, che ha solo controindicazioni verso i piccoli, che dovrebbero esserne i protagonisti. Non vedo nulla di buono nel far approcciare i bambini piccolissimi agli spettri, al terrore, al sangue, alla magia bianca o nera delle streghe e dei diavoli. Poi non dormono più da soli, e sarebbe il minimo danno. È tutto in chiave giocosa, si dice. Anche Cappuccetto Rosso è un horror, si dice. Ma una favola rimane tale, viaggia sulla fantasia e sull’immaginazione suscitata dalle parole, con le inquadrature un po’ sfumate, dove il sangue, quando c’è, non è mai versato invano.

C’è chi dice, ancora, che Halloween non è altro che l’attualizzazione della festa dei “morticeddhi” che esisteva nel meridione, e nel nostro Salento in particolare, e che si era inspiegabilmente interrotta nel dopoguerra, insieme a tante altre ritualità e abitudini ritenute vetuste per la modernità. I nostri genitori ricevevano dei dolci (a volte solo frutta secca zuccherata e frutti di stagione) nella ricorrenza dei morti, in suffragio dei defunti. Era una festa del ricordo e i morti non ritornavano sulla terra dall’oltretomba con un occhio fuori dall’orbita, sotto forma di zombie, con il cranio fracassato e la materia celebrale a vista, per terrorizzare i vivi. E i dolci si distribuivano senza il ricatto dello scherzetto perché era il gesto del “donare” che dava sollievo, il suffragio, a chi non c’era più. Quasi ogni famiglia, inoltre, aveva un morto bambino da piangere, a causa dell’alta mortalità in età infantile dell’epoca, per cui il gesto di offrire un dolce a dei bimbi era fortemente simbolico e significativo. Anche una persona con modeste capacità comprende la fondamentale differenza fra Halloween e la nostra tradizione.

Per alcuni teologi (si dice che siano in evidente conflitto d’interessi, però), inoltre, sdoganando l’orrore come fatto da cui trarre gioia e godimento, si favorisce la fascinazione di una certa ritualità cruenta (chiamiamolo pure satanismo, senza girarci intorno) su una fascia di età ancora scoperta da difese consolidate.

E infine le grosse zucche, il cui prezzo aumenterà in maniera spropositata, era meglio quando si utilizzavano per cuocerle “a zuppa”, nel grande tegame di coccio, sulla brace che cominciava anche a dare sollievo al primo freddo della stagione, con le olive nere della “capaseddha”. Le olive soffritte rimanevano lucidissime a galleggiare, punteggiando di occhi scuri la minestra, l’unica colore arancio vivo della cucina salentina.

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Profumi

Profumi (2020)

Non tutti i giorni nascono uguali. Non tutte le notti portano un sonno ristoratore. Certe notti non dormo. Non tutti miei pensieri sono sereni e belli, come quelli che seleziono per poi scriverli in un post. Certe volte sono grigi, indefiniti come le larve che si rigirano su se stesse quando sollevi una pietra. Preferiresti non aver toccato quella pietra e non aver sconvolto quel piccolo mondo sotterraneo. Certi pensieri nascono come larve sottoterra e si manifestano nonostante la mia stessa censura pesi come quella pietra. Trovano percorsi segreti per sfuggire al mio controllo. Posso provare a fare due passi, o a canticchiare una canzone, per sciogliere la tensione, ma sono certo che quella canzone sarà comunque un motivo del passato che riaffiora dai meandri della mia memoria e sarà del tutto inadeguata a combattere, pur con tutta la sua carica evocativa, contro i mostri di questo mondo moderno. Non mi serve mangiare, neanche bere. Non mi servirebbe neanche dare un pugno al muro o rompere un suppellettile, sfoghi che non mi appartengono. Cerco, allora, dei pensieri positivi. Gli stessi che sollecitano gli anestesisti a chi si deve addormentare per subire un’operazione. Quelli belli, quelli buoni, che non mi mancano perché sono quelli che piacciono anche agli altri e ne ho sempre una buona scorta…

Certe mattine tace anche la televisione. Ci sarebbe un’infinità di canali da cambiare, tanto da rendere impossibile una decisione definitiva. Non c’è nulla di più alienante della ricerca affannosa del programma giusto. Potrei andare direttamente su un canale preciso, che già conosco, ma evito di farlo perché, in fondo in fondo, non rinnego un giro nel tossico bestiario del trash televisivo. Certe mattine non ascolto neanche la mia musica preferita perché lo stereo è in un’altra stanza e poi non so uscire da quella ristretta rosa di cantanti e gruppi che mi piacciono; penso che non sia proprio il caso di contaminare la bella musica con una pessima mattinata.

Quando tante piccole cose della quotidianità sembra che mi remino contro, subentrano i falsi presentimenti, quelli innocui, ma che è difficile ignorare. Finisci per pensare che forse è così che si manifesta l’arrivo di qualcosa di inesorabile, quell’avvenimento che mi può cambiare definitivamente la vita. Qualunque cosa sia, meglio che non mi trovi supino, e già disponibile al peggio. Meglio la posizione fetale, con le membra contratte ma già pronte a uno slancio, al colpo di reni…

Un profumo improvviso di fiori: di rosa antica, di lavanda, gelsomino, forse anche di zagara… Si fonde, dapprima, con l’aroma dolciastro del caffè rimasto nell’aria. Annuso e rimango perplesso, sul divano, con le membra contratte. Non sono più certo di avere l’energia per scattare, né per il colpo di reni. Ricordo il racconto di un prozio: mi disse che, quella volta, in un santuario aveva sentito l’odore delle rose che manifestava la presenza del Santo. “Il profumo di fiori annuncia sempre i Santi – mi disse – così come quello dello zolfo segnala una forza demoniaca”. Qualunque cosa mi debba accadere, almeno sarò bene accompagnato…

Poi il profumo diventa più forte, riempie quasi la stanza. Il mio naso allenato, però, è perplesso da nuove sfumature artificiali di quell’odore intenso. Mi alzo dal divano e ne seguo la scia che proviene dall’ingresso di casa. Apro la porta all’improvviso e mi appare, sul pianerottolo, avvolto dalla luce, l’addetto alle pulizie delle scale. E’ un uomo alto, dai tratti nordici, che parla un buon italiano (utile per quando deve difendersi dalle accuse di non pulire sempre a regola d’arte) con un forte accento slavo. Non faccio in tempo a parlare che lui, indicandomi un prodotto sul suo carrello, mi dice: – Buon profumo, eh?

Nella foto: Lorenzo Cavina