Pubblicato in: Ricordi, Riflessioni

Quando l’erba del vicino è la tua

QUANDO L’ERBA DEL VICINO E’ LA TUA… (Marzo 2021)

Qualcuno ha postato nuovamente, su un gruppo civico, delle cartoline della villa di Maglie degli anni settanta e in molti, dei più giovani, si sono meravigliati nel vedere la bellezza delle aiuole che, all’epoca, erano fiorite e colorate come festoni. Ho già scritto sull’argomento e ci ritorno volentieri. Prima, addirittura, c’era anche un mestiere specifico: “u villieri” che era il giardiniere addetto alla manutenzione della villa di Maglie. E allora, chi ha la mia età ricorda bene le viole del pensiero di diversi colori che venivano alternate alle pratoline doppie, per creare quella stratificazione di bianchi, rossi, gialli e blu dai perimetri perfetti. E d’estate, poi, si giocava sulle altezze. Si piantavano dalie, zinnie, bocche di leone e violacciocche. E allora l’aspetto della villa assumeva quasi sembianze tropicali. Mai a caso, sempre con incastri perfetti di colore: “u villieri” sapeva fare bene il suo lavoro! Conseguentemente, anche il rispetto per il luogo era quasi spontaneo.

Personalmente ho avvertito una gran nostalgia e ho pensato che si osteggia, nelle pubbliche discussioni, il principio della “decrescita” come propaganda politica ma, se si riflette, in decrescita ci stiamo già dentro da un bel pezzo. Decrescita morale, sociale, culturale ed estetica. La bellezza dell’ambiente non va mai trascurata, spesso è proprio l’argine naturale che sbarra il passo alla depressione. Ma forse non è corretto parlare di decrescita, che presuppone una finalità e una strategia, quanto di decadenza.

Ma anche i “giardini segreti” di tante vecchie case di Maglie erano bellissimi. Rose, rampicanti o cespugliose, spesso di razze antiche, disposte lungo un vialetto che portava a una nicchia con un’immagine sacra, circondata dalle fronde ricadenti di gelsomino. Non mancava, poi, l’angolo delle erbe aromatiche: rosmarino e salvia. A fare da sfondo, due o tre alberi di agrumi, perché non poteva mancare il limone, né uno di cachi che, a inizio autunno, si colorava di rosso acceso. Ora anche i giardini privati sembrano meno curati e colorati. Dico “sembrano” perché, forse, siamo sempre più distratti e concentrati su noi stessi e l’ambiente che ci circonda è un optional. Dal canto nostro, da quello di cittadini, si è perso molto di senso estetico e della bellezza in senso esteso (pubblica o privata che sia), mettendoci dentro anche arte, cultura, socialità e solidarietà, in fondo, non ce ne frega nulla…

Ai magliesi, me compreso, va addebitata l’accidia, quel mettersi in attesa e in osservazione passiva. Vale anche per i misteri sulla qualità dell’aria, che meritano un altro capitolo, ben più drammatico.
Anche la Maglie intellettuale sembra replicarsi all’infinito, incartata nel suo ruolo di seconda linea, perché nessuno è avanzato e non ha più i Panarese, i Micolano, i De Donno, i Macrì. Non c’è più la pittura romantica di Montefusco, né l’ineffabile tocco di scalpello del Mangionello. Non ha più, a scuotere le coscienze, la poesia aspra di Salvatore Toma – ieri ricorreva l’anniversario della sua scomparsa – né la propaganda, comunista e visionaria, di Claudia de Lorentiis. Non c’è più una stampa locale che non sia quella dei volantini dei supermercati. È un refettorio di scranni vuoti.

Mi si potrebbe obiettare che è una situazione generalizzata, che non conosce colori politici e confini geografici. Un tempo, però, era lecito riferirsi ai benchmark più virtuosi, tendere a imitare e a imparare dai migliori, invece che consolarsi nello stagno del mal comune. Forse, anzi sicuramente, in quel tempo siamo stati noi il benchmark, l’esempio e lo sprone per chi ci osservava dall’esterno.

Non ho nulla contro i prati spontanei, per carità, ma qualcosina da ridire ce l’avrei – invece – sui prati inglesi privati se, nell’arido Salento, vengono innaffiati con l’acqua di falda, che è un prezioso bene comune, a prescindere dalla possibilità di potersi permettere il costo dei pozzi e delle bollette elettriche. Non dovrebbe bastare poterlo fare. Ma anche questo è un altro discorso. Questa che vediamo nella foto è un’aiuola di villa Tamborino, nel bel centro della città. Non è recentissima ma rappresenta lo stato attuale delle cose. Cosa ci rappresenta, come ci rappresenta?
Vale quello che sembra: un comodo pisciatoio per i cani al guinzaglio di concittadini dall’incerto senso civico, incentivati da cotanta pubblica incuria. Non trasgrediscono alcuna norma, sia ben chiaro, ma il buon gusto forse sì. Qualcuno porta la bustina, qualcun altro no. Che poi, a volerla dire tutta, dove sta scritto che le passeggiate igieniche debbano convergere fra le aiuole della villa?

Troppo facile sparare a 360° mentre il mondo sprofonda per l’epidemia? Forse è vero o forse no. Vale da pro memoria per la ripartita, quando l’avremo raggiunta.

Mi rassicurano: prima di Venerdi Santo passerà qualcuno con un decespugliatore a spuntare la cicoria, le ortiche e gli “zanguni” e piazzerà frettolosamente qualche ciclamino qui e là, come accade con i crisantemi, in novembre, sul viale del cimitero. Speriamolo! O forse, considerata la nostra “zona rossa”, neanche quello. Io, però, a questa visione di Maglie intossicata, versione “trap”, proprio non mi rassegno. Se musica deve essere, preferisco un jazz leggero, dove i musicisti possono anche improvvisare quando hanno un grande talento, o la limpidezza definita della musica barocca, dove ogni corda pizzicata o accarezzata vibra a lungo, all’unisono con i sensi, ma lungi da ogni forma di barocchismo.

E adesso, sperando che abbiate colto che il fatto specifico è solo la metafora dell’insieme, basta! Perché penso di aver già perso, con queste parole, un bel po’ di amicizie… (e, sotto Pasqua, non è bello).

Pubblicato in: Racconti, Ricordi

La luna dei Borboni

LA LUNA DEI BORBONI

Le poche strade che si percorrevano abitualmente con l’auto di papà avevano nomi molto semplici: la via del mare, che era la strada per Otranto, la via dell’Upim , che era quella che portava a Lecce. Perché un ragazzino della provincia degli anni 70 amava Lecce solo perché c’era la Upim, con il suo reparto dei giocattoli. Amava la Upim a prescindere, e Lecce di riflesso, perché conteneva quel fantastico magazzino.

Le strade extraurbane erano strette e lunghissime all’epoca, e le auto rumorose e lente, per cui anche durante il tragitto, per marcare l’avanzamento, si fissavano dei punti di riferimento. Sulla strada di Otranto, ad esempio, c’era la Casa Rossa, prima dei tornanti, che annunciava l’imminente arrivo in spiaggia. Al ritorno, a pochissimi chilometri dal passaggio a livello che faceva da porta d’ingresso di Maglie, avremmo trovato invece la lugubre “Casa dei Fantasmi”, un’antica masseria, apparentemente disabitata, protetta da un boschetto di alti pini. Quando si andava a Lecce, invece, era la “Casa delle Fate”, che si incontrava sulla sinistra, a preannunciare l’imminente arrivo alla Upim.
La “Casa delle Fate”, la definivamo così per il suo stile liberty, eccentrico e un po’ sfacciato. Per gli intonaci colorati, per le porte e le finestre dalle vetrate fantasiose. Solo quando fui più grandicello seppi che quella singolare dimora liberty era appartenuta al più grande tenore di tutti i tempi: Tito Schipa. E’ la sua voce che augura il mezzogiorno ai leccesi, tutti i giorni dell’anno, in piazza Sant’Oronzo. I turisti ne rimangono sorpresi e incantati perché la voce del tenore sembra scendere dall’alto, morbida e argentina, come se fosse riprodotta da un vecchio grammofono. Si guardano attorno e poi cercano la fonte della musica, proteggendosi con le mani gli occhi dal sole, che in quel momento è allo zenith.
.
L’appuntamento a Lecce era per la prima mattinata e, come ogni impegno di lavoro, era richiesta la puntualità più assoluta. Dovevo partecipare a quell’incontro accompagnato da un collega che proveniva da un paese più a nord di Lecce. Stabilimmo di trovarci nel parcheggio del Cimitero, di solito più libero di prima mattina, dove avremmo lasciato le rispettive autovetture, per proseguire a piedi verso il centro.

Arrivati sul posto ci rendemmo conto che era ancora troppo presto, nel frattempo fui raggiunto dalla telefonata di un terzo collega che mi preannunciava uno slittamento dell’appuntamento. C’era più di un’ora di tempo che si poteva occupare per fare colazione o per passeggiare nel barocco. Guardandomi alle spalle, notai che i custodi del Cimitero stavano aprendo i cancelli.

Entriamo nel cimitero ? – proposi al mio giovane collega.
Per far cosa – mi rispose lui, perplesso.
Per visitare la Tomba di Tito Schipa – dissi io – improvvisando una motivazione valida che speravo potesse essere condivisa –
Ok, vada per il cimitero…- Era evidente che lo facesse per accontentarmi.

Ci incamminammo verso il viale. Nel frattempo le persone che avevamo visto attendere fuori dai cancelli, con i mazzi di fiori in mano, si erano già disperse nei vialetti e fra le tombe. La giornata estiva si preannunciava molto calda, come le precedenti, per cui in molti avevano anticipato la visita ai loro defunti. Ben presto ci rendemmo conto che il Cimitero era veramente molto grande, diviso per aree secondo l’epoca di edificazione delle cappelle e delle tombe. Girammo senza una meta per alcuni minuti, sperando di trovare un’indicazione per la tomba del tenore. Probabilmente ci passammo anche vicino senza notarla. Alla fine fermai una signora che aveva l’aspetto di una persona ben informata e le chiesi indicazioni.
Mi dispiace – rispose – è imperdonabile per una leccese…non l’ho mai notata. Sarà in un’area che non è nel mio giro abituale…-.
Fermai altre due signore. Una delle due mi rispose in dialetto:
Ci ete stu Titu? Eh fiju miu, ca mancu visciu bbonu…
E l’altra: – No, mai saputo dov’è…-.
Stavamo per andare via. Ma avevamo sollevato un caso perché le quattro/cinque persone alle quali avevamo chiesto le informazioni, non si limitarono a dirci che non ne sapevano nulla ma, incontrando altri conoscenti, chiesero a loro volta. Ce ne accorgemmo seguendo da lontano il passaparola. Alla fine una persona di quelle che avevamo fermato si imbatté in una dolcissima nonnina, accompagnata dalle nipoti, che era una lontana parente del tenore. Si offerse di accompagnare “i signori che volevano visitare la tomba dello zio” e le nipoti vennero a rincorrerci mentre stavamo per uscire dal cimitero. Ritornammo volentieri sui nostri passi. Fu così che si creò un piccolo corteo: la nonnina davanti, che camminava lentissimo, noi dietro di lei, e dietro di noi le altre persone alle quali ci eravamo rivolti. Nessuno dei coinvolti nella nostra ricerca voleva perdersi la visita alla tomba di Tito Schipa. Arrivammo al sarcofago del tenore che eravamo una decina di persone. La nonnina mi indicò un’altra tomba molto vicina. – Qui riposa Bodini – mi disse – Ha presente “La luna dei Borboni? -.

“Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.”

Pubblicato in: Autobiografia, Diario di Viaggo, gastronomia, Ricordi

Itinerari: Friburgo

Friburgo

Friburgo, in Bresgovia, è senz’altro un’ambita meta natalizia ma, per intenderci, non è il paese di Babbo Natale. Infatti è una città di medie dimensioni. Tutt’intorno, però, è circondata da colline ammantate da boschi fittissimi e apparentemente impenetrabili. È questo che la rende, nell’immaginario del turista, come quel piccolo regno ritrovato tante volte nelle illustrazioni delle fiabe dell’infanzia. Ma non tutto è così perfetto e patinato. C’è una Friburgo iperattiva, come tutte le città, e poi c’è quello che colpisce ogni viaggiatore all’arrivo: l’odore acre dei crauti, che si avverte già dalla stazione e che sembra fissarsi sui vestiti. Sarà il leitmotiv di tutto il soggiorno in ogni strada, pub o ristorante. Così è, spesso, al di là delle Alpi…

Friburgo mantiene intatto il suo centro storico medievale e la suggestiva architettura nordeuropea, caratterizzata da tetti appuntiti di ardesia, antiche case a graticcio, intonaci colorati e legno a vista dalle belle tonalità calde.

Per il suo essere distesa in una valle, non anticipa nulla della sua bellezza, se non fosse per le guglie svettanti della cattedrale gotica. Non degrada da una collina come Zurigo, che appare già tridimensionale, con tutti i palazzi e le chiese in evidenza, al primo colpo d’occhio. Non ha un fiume come Basilea, né un lago per “barare”, per riflettersi e moltiplicare le luci. Bisogna girarci all’interno, nelle stradine di acciottolato, accompagnati dalle note dell’arpa celtica, pizzicata dalle dita dei musicisti di strada, per scoprirne gli scorci più suggestivi, e anche avere un po’ di fortuna per non trascurare i particolari più belli, se non si segue una guida fisica o virtuale.

Come in altre città del nord Europa, anche qui la gente è affamata di luce. Le finestre delle case sono senza tende, la parte interna dei davanzali è quasi sempre addobbata con candelieri, piccoli lumi, pupazzi e piante fiorite. Nelle grigie giornate invernali, la luce delle candele e delle lampade, accese fin dal primo mattino, dona all’interno delle stanze la gentile illusione che un pallido sole si sia affacciato in quelle case, a rinfrancare chi le abita.

Il profumo della resina d’abete è avvolgente, se si dà per scontata l’assuefazione all’odore dei crauti, tanto da poterlo ignorare. Proviene dai banchetti, sistemati nelle piazze, dove le anziane fioraie intrecciano i rami delle conifere con il vischio e il pungitopo. Confezionano, con grande maestria, corone augurali da sistemare sugli usci delle case e centrotavola per adornare le tavole delle feste. Di sera, questo persistente profumo di bosco lascia il posto a quello del vin brulé e del sidro che sobollono nei calderoni di rame delle osterie. Ogni oste utilizza una selezione di spezie e ingredienti segreti che conferiscono aromi unici al suo prodotto. I clienti apprezzeranno, di quelle tazze bollenti, anche il calore che ridarà vitalità alle dita congelate dal freddo, scioglierà la lingua e consentirà di proseguire la passeggiata nella neve fino al successivo punto di ristoro.

In tempi normali, prima del covid, dalla stazione di Friburgo partiva un treno che portava nel cuore della Foresta Nera e poi, dalla piccola stazione dove si fermava, dei vecchi pullman locali, guidati da autisti vestiti da Babbo Natale, conducevano i turisti a Ravennaschlucht (la gola del fiume Ravenna). Qui il bosco imbiancato di neve all’imbrunire si anima di elfi e di folletti; il tempo è scandito da un orologio a cucù grande quanto una baita, con personaggi meccanici di dimensioni umane che lo animano a ogni cambio d”ora.

Grandi bracieri riscaldano la gente nella freddissima notte della Foresta, cuocendo grossi pezzi carne speziata e filetti di salmone, questi ultimi inchiodati su taglieri di legno, posti di lato perché il calore delle braci arrivi più dolce e preservi la delicatezza del pesce.

Sulle teste dei turisti c’è la luna e il famoso ponte di pietra che scavalca la valle e da dove passa, a intervalli regolari, il treno utilizzato per le pubblicità natalizie della Coca Cola.

Pubblicato in: Racconti, Ricordi

Giardini segreti salentini

Com’erano i giardini segreti delle vecchie case salentine? Certamente non avevano prati inglesi, perché l’acqua era preziosa com’è preziosa, ancor di più, adesso. Nei contemporanei, evidentemente, è venuta meno la consapevolezza della sua preziosità. Basta aprire un rubinetto: è facilissimo e l’acqua sgorga a prescindere se è un acquedotto a fornirla o un pozzo, legale o meno. Non ci vuol un grande ingegno per capire che pompare acqua dolce dalla falda per irrigare un prato sia un atto che ha poco senso nell’arido Salento.
C’erano sicuramente le rose, nell’antico giardino, rampicanti o cespugliose, spesso di razze antiche che, schiudendosi, rivelavano inaudite irregolarità, con molteplici vortici di petali al posto dell’unico fulcro, al centro del fiore. Le rose, di solito, erano disposte lungo un vialetto che portava a una nicchia di pietre, assemblate con la tecnica del muretto a secco, addossata al muro di confine. Invece di pretendere la perfezione degli incastri, allu “mesciu paritaru” si richiedeva di utilizzare, intorno al vano che accoglieva un’immagine sacra, o una statuina di santi o madonne, pietre spesso antiche, selezionate in zone carsiche o marine, in modo che, sistemate con arte, potessero simulare l’ingresso di una grotta naturale. Ai lati dell’edicola, di norma, si lasciava crescere un gelsomino profumato o un altro rampicante. Lungo un muro della casa non mancava, poi, l’angolo delle erbe aromatiche: quelle perenni, quali il rosmarino, la menta e la salvia (questa più recentemente) e quello delle stagionali, che venivano seminate in un piccolo semenzaio e poi interrate a dovere alla giusta distanza. A fare da sfondo, poi, c’erano due o tre alberi di agrumi, perché non poteva mai mancare il limone, l’arancio e il mandarino, né uno di cachi.
Anche il cachi era insostituibile ed era l’unico albero che davvero aveva una mutazione precisa per ogni stagione dell’anno. Dall’equilibrio, quasi geometrico, dei rami spogli nel periodo invernale, che ricordano gli alberi stilizzati di Mondrian, alla discreta fioritura e al verde brillante delle foglie a primavera, fino all’arancio dei frutti, a fine estate, e al rosso cupo della chioma in autunno la cui caduta spesso anticipa la maturazione degli ultimi cachi. Il cachi è uno dei pochi alberi che si spoglia quando i suoi rami sono ancora carichi di frutti, che rimangono appesi a lungo, quasi fino all’arrivo del freddo, come le sfere di vetro delle decorazioni sull’albero di Natale che si indugia a smontare a fine festa.
i ragazzi si divertivano, un tempo, a far cadere quei cachi piu alti muovendo i rami, o usando uncini e pertiche, e spesso diventava un gioco da roulette russa quanto il cachi maturo cadeva sulla testa di un malcapitato. E poi, il gioco continuava anche dopo aver gustato il frutto morbido e dolce: si tagliavano i semi in due e si osservava la forma del germoglio: poteva essere quella di un coltello, di un cucchiaio o di una forchetta. Non c’era un significato predittivo. Si prendeva solo atto della posata che si era palesata.
Poi, verso gli anni settanta molte case furono sopraelevate, il giardino fu stravolto e rimodernato. Apparve l’erbetta all’inglese e i vialetti furono cementati per non sporcarsi di terra. I limoni resistettero ma il cachi, ritenuto albero che sporca, fu eliminato: troppe foglie in autunno da spazzare, troppe mosche attirate dai frutti caduti e troppi moscerini nell’aria, ebbri del succo zuccherino, segretamente fermentato sotto la buccia trasparente.

Pubblicato in: Autobiografia, Ricordi, Riflessioni

LO SCRIGNO

LO SCRIGNO

È il piccolo fondo di famiglia, acquistato alla fine degli anni sessanta: “u sciardinu” (il giardino), da noi si usa chiamare così un terreno che venga coltivato per svago e non per mestiere; cinto da muri, molto spesso a secco, e con un piccolo fabbricato rurale per ripararsi e, se sufficientemente confortevole, per soggiornare brevemente, oltre che per custodire gli attrezzi agricoli. Quel terreno, posto al culmine di un’altura e circondato da alti muretti a secco, era già ricco di roseti, fichi e ciliegi e, in qualche modo, nella sua semplicità, ci rappresentava.

Ricordo perfettamente il momento in cui, in una vecchia casa del centro, un’anziana vedova rimasta sola al mondo, proprietaria di quel fondo denominato “Campi”, consegnò a mio padre le chiavi lunghe e arrugginite del portoncino d’ingresso (non esisteva un cancello) e quella della porta della casetta di pietra leccese che c’era al centro del fondo. Ricordo che la signora alzò il prezzo, ma di poco, quando vide la nostra Ford Cortina, la riteneva (sbagliando) un’auto di lusso. Mentre firmava l’atto di vendita, dal notaio, la donna pianse silenziosamente con lunghe lacrime che corsero sulle sue guance bianche e caddero sulla carta vidimata, inumidendola.

Fuori dallo studio notarile, chiesi a mio padre perché la signora avesse pianto, invece di essere contenta per aver preso quelli che a me erano sembrati “tanti soldi”, già preparati dalla banca in una grossa mazzetta di fogli da diecimila lire e ricontati, al momento, dall’assistente del Notaio. Lui mi disse che la signora aveva pianto per i suoi ricordi legati a quel giardino, a cui non poteva più badare. I soldi, però, le avrebbero consentito di affrontare il futuro con più serenità. Fu quella la prima volta che capii che si possono comprare le cose, non i ricordi delle persone, ma che è comunque un trauma distaccarsi dalle cose perché diventano lo scrigno fisico dei sentimenti. Lo capii solo in teoria, e in modo grezzo, perché non avevo ancora, a quel tempo, la maturità necessaria e un magazzino di ricordi da mettere alla prova. Quel giardino, denominato “Campi”, perché faceva vivere a lungo i proprietari, divenne per me un posto che aveva una sua sacralità, perché aveva custodito i ricordi della vecchia e ne aveva suscitato il pianto. In seguito mi capitò spesso di provare a immaginare la quotidianità, ma anche le piccole ricorrenze, i pranzi all’aperto e le notti silenziose, specie quelle in tempo di guerra, passate al buio a fissare le stelle, dei componenti della famiglia che aveva vissuto, prima di noi, l’avvicendarsi delle stagioni in quella casetta a forma di cubo. La mia era solo immaginazione o stavo rivivendo fatti realmente accaduti? Forse l’anziana signora aveva avuto ragione a piangere, perché noi i suoi ricordi li avevamo comprati davvero, quella sera. Mi convinsi che una parte residuale di quelle memorie, forse la parte più tenace e incancellabile, era rimasta in quel luogo, nella terra rossa e fra le rocce affioranti, nei turbini di vento che si rincorrevano fra i ciliegi e in ogni rifioritura dei rosai. Dopo la sua morte, che avvenne qualche anno dopo, forse ne ero solo io il custode, l’ultimo testimone involontario. Una memoria presente ma ormai criptata e indecifrabile, che aleggiava insieme ai nostri ricordi, ancora ripercorribili, e a quelli, ancora più remoti, di coloro che erano stati lì’ prima di lei. Era uno scrigno da passare di mano, di cui si poteva avere contezza solo di una piccola parte, dello strato più in superficie, e che non si sarebbe, per questo, mai svuotato.

N.B. = Non mi ritengo uno scrittore per cui nessun mio scritto sarà mai messo in vendita, salvo che per motivi di beneficenza.

Pubblicato in: Racconti, Ricordi

Notte da ricordare

Qualcuno rispolvera, in questi giorni, le foto delle nevicate del 2017 e del 2019. Sovrapponendo i ricordi degli eventi, come capita quando le situazioni molto simili si ripetono, c’è chi, oggi, arriva a dire che le due nevicate furono “più o meno” identiche. Non è vero, quella del 2017 fu molto più lunga e intensa: la nevicata da ricordare…

Notte da ricordare
(08/01/2017)

La neve disegna il vento.

La neve disegna la corsa del vento. I fiocchi tracciano e materializzano ogni singolo flusso d’aria. S’incanalano, si avvolgono a spirale nei turbini (che non vedresti mai). Scendono piano, planando, quando il vento cala e poi trovano nuove correnti ascensionali, sfidando ancora la forza di gravità.

Con la neve si può guardare il vento, prima che impatti sugli oggetti, sulle case e sulle foglie, prima che fischi nei timpani, che scuota le cose e le faccia vibrare: prima che la forza dell’aria diventi suono e rumore.

Sono strane queste notti, per essere notti salentine. Chiare e lattiginose, sature di una luce soffusa, quasi rosata, che ritorna a terra, riflessa dalle nubi dense, e poi, ancora, restituita dal manto bianco, come se rimanesse catturata in un gioco di specchi e fosse condannata a non disperdersi perché non trova uno spazio di buio totale che la possa inghiottire.

La nuova e abbondante nevicata del tardo pomeriggio ha ricoperto le impronte e la brutta fanghiglia delle strade, ha cancellato di nuovo gradini e marciapiedi. Ha arrotondato ogni spigolo e ha rivestito e reso irriconoscibili le carrozzerie delle auto. Ora, però, sembra che abbia smesso. C’è silenzio, odore di freddo e di fumo dei camini.

Speriamo bene per domani. I disagi, per chi si è dovuto spostare oggi, sono stati tanti. Non siamo attrezzati e abituati a questi eventi meteorologici così prolungati nel tempo, tanto che qualche anziano, come si usa fare durante le tempeste di vento e i temporali più violenti, ha acceso la candelora per chiedere l’intervento divino. Ho visto passare sotto casa delle vecchiette che indossavano cappotti e scarpe del tutto inadeguati al freddo e al ghiaccio di questi giorni. È bene che smetta, anche per l’integrità dei loro femori.

Intanto mi godo ancora, un po’ colpevolmente, lo spettacolo, indugiando alla finestra. Sarà, anche questa, una notte da ricordare negli anni a venire.

Pubblicato in: Ricordi, Riflessioni

Torci u vinchiteddhu…

Torci u vinchiteddhu…

“Torci u vinchiteddhu quannu è tenareddhu” diceva mio nonno, rivolto a mia madre, quando assisteva a un mio capriccio e voleva dire la sua senza entrare nello specifico, come fosse un linguaggio in codice fra adulti.

Nel dialetto salentino ” u vinchiteddhu” è il diminutivo di “vinchiu” (dal lat. vinculum) che è il pollone, o vincastro, che spunta alla base dell’albero d’ulivo e cresce in fretta, dritto e flessuoso. “Raccolto” (tagliato, divelto) al momento giusto, veniva, e viene tutt’ora, adoperato per realizzare l’intelaiatura dei cesti. Per potergli dare la forma voluta è necessario, però, utilizzarlo quando la fibra è molto flessibile e non ha ancora raggiunto la consistenza legnosa.

La metafora che sottostà al proverbio dialettale ( tradotto: dai forma al vincastro quando è ancora tenero) è lampante: educa tuo figlio già da quando è piccolo perché da grande sarà impossibile disciplinarlo! I nostri nonni, appena alfabetizzati, dicevano, quasi un secolo fa, quello che oggi scrive Crepet come se fosse una verità rivelata, e cioè che l’assenza di regole in famiglia ha portato l’educazione dei figli allo sbando assoluto. Sono “rivelazioni” sgradite che stanno creando scandalo e scompiglio fra le mamme delle chat scolastiche e fra i papà delle Play Station agghindati da adolescenti, che scaricherebbero volentieri tutta la loro responsabilità a un soggetto impersonale: alla “società dei consumi” per l’appunto (che pure è corresponsabile con dolo).

“U vinchiu”, ripulito e tagliato nelle giuste dimensioni, era anche un frustino, utilizzato per guidare e contenere gli animali, temuto strumento di punizione – insieme alla “curiscia”, che è la cintura dei pantaloni – dei ragazzi troppo esuberanti o disubbidienti.

Si racconta che quando, quella volta, la sposa era tanto alta da non entrare in chiesa e il futuro marito già piangeva perché non voleva che le venissero segate le gambe, come proponevano i saggi del paese, un giovane fece la sua fortuna assestando un colpo “de vinchiu” dietro alle ginocchia della ragazza che, colta a sorpresa, piegò le gambe e riuscì ad entrare in chiesa dalla porta principale. Ma questa è un’altra storia.

La Phalaenopsis non è un ulivo ma il criterio per portare i futuri fiori là dove voglio che sboccino, è lo stesso. Anche lo stelo del fiore dell’orchidea va seguito centimetro per centimetro, piegandolo sul tutore di bambù finché è tenero, spostando frequentemente le mollette perché non ne frenino la crescita e non lo intacchino. È anche fin troppo tenero e delicato, basta un gesto maldestro per spezzarlo e mandare in fumo la fioritura e un anno di cure.

Accudire l’orchidea è un esercizio zen, al limite del parossismo, e non hai neanche un sasso levigato da muovere o il rastrellino per disegnare le onde sulla sabbia. A volte mi chiedo che senso abbia coltivare con tanta dedizione delle piante che, nel loro ambiente, crescono spontaneamente. Come si dice per certe esperienze al limite: se non ti ammazza, ti fortifica. La scoperta è che può fortificare anche l’esercizio che apparentemente è il meno faticoso, il più ripetitivo e banale. In realtà abbiamo tutti bisogno di piccole cose da fare con impegno (e di silenzio), e di essere ripagati anche con solo un fiore. Mi ricorda Endrigo…

(01/2019)

Pubblicato in: Diario di Viaggo, gastronomia, Racconti, Ricordi

Lo aveva detto il vento… (dalla terra di Sardegna)

Lo aveva detto il vento
(dalla terra di Sardegna)

Ieri si era alzato, improvviso, un inaspettato e forte maestrale che ha spazzato il caldo asfissiante dei giorni precedenti. Credevo che fosse una benedizione, in realtà qui quando si alza il vento, in particolare nei giorni della Festa di San Costantino, è presagio di fatti nefasti. Eppure, in questa stagione, le valli fra le colline di Sedilo si infuocano e l’aria diventa densa per l’evaporazione del lago Omodeo, che si distende sotto la cattedrale rupestre del Santo.

Alla signora Rosa, che me lo diceva a bassa voce, guardando le fronde dell’arancio scosse dal vento e già cariche di piccoli frutti acerbi, le si erano inumiditi gli occhi. Non scherzava. Non mi ha detto il perché di questa associazione fra vento e malasorte, benché l’avessi chiesto. Le parole, in questo paese, sono filtrate dal pudore e da una ferrea educazione e non vengono mai sprecate; raramente, poi, superano gli alti muri di basalto nero e malta bianca degli orti che circondano le case.

Più tardi, degli amici mi hanno spiegato – in confidenza – che, in questa zona della Sardegna, il vento è atavicamente associato alla morte. Era, infatti, nelle notti ventose che si commettevano i crimini più efferati. Il fragore del vento copriva i rumori degli agguati, le urla di chi veniva accoltellato si confondevano anche con i versi degli animali, agitati dal cattivo tempo.

L’Ardia non é andata bene. Ieri sera gli inseguitori sono riusciti a fregare la scorta e a superare uno dei tre cavalieri che recavano i vessilli della folle corsa, le”pandelas”. Non è una buona cosa, quando accade. È come se il male avesse la meglio sul bene, rappresentato dai vessilli religiosi. È difficile comprendere una competizione dove chi insegue comunque non dovrebbe mai raggiungere e superare chi gli sta davanti. Ecco perché l’Ardia è unica, è una processione e non una vera e propria gara, anche se a tutti viene richiesto il massimo impegno possibile.

Nella ripetizione di questa mattina è andata anche peggio. I primi cavalli sono caduti su una ripida discesa. I loro cavalieri sono rotolati nella polvere ma hanno evitato gli zoccoli dei loro destrieri e di quelli che seguivano. Un fantino che sopraggiungeva ha cercato di frenare ma è caduto dal suo cavallo in una stretta curva e ha picchiato la testa contro il muretto. Gravissimo, è stato trasferito in elicottero in un centro di rianimazione. La corsa si è fermata, poi è ripresa. Bellissima, emozionante per me, ma non è stata più come doveva essere. “Il vento lo aveva detto” dicono tutti…

Sono tornato a casa con il bisogno di qualcosa che mi togliesse l’amaro e la polvere dalla bocca. Ci vuole un pezzo di pecorino, morbido e dolce come lo fanno qui, tagliato dalla forma con un coltello appuntito di Pattada. Un formaggio che trasuda grasso, di colore avorio e privo di ogni retrogusto di erba sgradita. E poi ci vuole un bicchiere di birra Ichnusa ghiacciata, che non può mancare nella casa di un sardo degno della sua origine, benché oggi sia un marchio del gruppo Hineken. Il formaggio lo produce un pastore che abita a un isolato di distanza. Lui si regge con una stampella, per gli acciacchi dell’età, e indossa pantaloni di velluto nero e spesso, come fanno in molti, anche d’estate.

In realtà, per addolcire la bocca ci sono i pirichittus, sotto la stagnola che avvolge un piatto portatoci da una vicina premurosa. Sono dei biscottoni rotondi, fatti in casa, che hanno il cuore morbido come una torta e giallo di tuorli d’uovo, ricoperto da una delicata glassa al limone e all’essenza di fiori d’arancio. Ma prima, da onorare, c’è un pranzo sardo, completo e articolato.

Poi il tempo di salutare e ringraziare e, caricati i bagagli in macchina, partire in direzione nord, verso Palau. La superstrada è deserta e si insinua nelle pieghe della terra, fra le montagne scure, sotto una volta stellatissima. Ma non è Palau la meta, per quanto attraente e suggestiva. È solo il nostro porto di partenza, dove ci attende un traghetto, la Enzo D., che salperà per l’arcipelago della Maddalena. Per me, il più bel mare del mondo!

Pubblicato in: Diario di viaggio, Ricordi

Buondì da Atene

Buondì da Atene

I gabbiani volano anche di notte al Pireo, sfruttando la luce artificiale e i fari delle navi. Nel Salento siamo abituati a vederli ritirarsi nei loro nidi al tramonto, dopo aver fatto da comparse gradite nelle ultime foto infuocate. Sono gli stessi gabbiani che popolano le discariche in città e che consideriamo spazzini ineleganti, oppure, se planano sul mare, un simbolo di libertà. Come spesso accade, è l’uomo a condizionare la reputazione e l’esistenza stessa degli animali, secondo la sua convenienza, con i suoi comportamenti contro natura.

Siamo arrivati alle 4,45 circa, ora locale, e non mi sarei perso per nulla al mondo l’ingresso nel porto, nonostante i porti, poi, siano e si presentino tutti uguali: cemento, rumori meccanici e metallici, acqua stagnante che esala cherosene. Ad Atene è prevista una tappa breve, purtroppo, probabilmente per l’alto costo dell’attracco, per cui mi godo, seduto alla sdraio e con la felpa, l’alba sulla città vista dal mare. Come al solito avevo lasciato aperte le tende ed ero nel dormiveglia quando la luce bianca e concentrata di un faro ha scannerizzato la cabina per pochi secondi. Una sveglia luminosa efficace.

Questo porto non è uguale agli altri, non in questa parte in cui abbiamo ormeggiato. Sembra di essere entrati in un lungolago di una città del Nord Europa, con bei palazzi tutt’intorno, aiuole verdi e viali alberati, una moderna strada sopraelevata da un lato e una sorta di piccola penisola al centro del bacino, con edifici moderni e alberi. La nave ha girato su se stessa, sorvegliata da un rimorchiatore rosso, e si è affiancata alla zona alberata. È un bel porto, non c’è che dire. Quanto meno la parte dedicata alle navi da crociera. Da dove abbiamo attraccato noi passano tutte le navi passeggeri e i traghetti. Ne arrivano di tutti i tipi e dimensioni, alcuni modernissimi e altri decisamente più datati e segnati dalla ruggine. È comunque una goduria per chi ne sia appassionato.

Dispiace solo pensare che – per la crisi finanziaria e lo strozzo europeo – tutto ciò non sia più di proprietà greca. Infatti da tre anni, il 70% ca del Pireo è stato svenduto al colosso cinese del trasporto marittimo Cosco per un ammontare di 370 milioni di Euro. E questo insieme all’acquisto a saldo, da parte dei tedeschi, di ben 14 aeroporti. Non sapremo mai se l’euro sia stata davvero la salvezza dei popoli del sud o lo strumento per indebolirli e poi “papparseli”.

Comincia a crescere il rumore di fondo della città alle spalle, è il respiro della megalopoli…

Pubblicato in: Diario di viaggio, Ricordi

Dalle bianche scogliere di Dover a Le Havre

Da Dover a Le Havre.

La nave ha mollato gli ormeggi, sento le vibrazioni dei motori laterali che ci allontanano dal molo al quale eravamo addossati. Fuori dalla diga foranea vedo grandi onde che si frangono sui frangiflutti. Qui il mare è sempre verdastro e lattiginoso. Probabilmente stanotte troveremo mare grosso nello stretto della Manica. Direzione Normandia.

Nei saloni sotto si ballerà fino a tardi, al suono di musiche e ritmi sudamericani. I ragazzi dell’animazione sono tutti travestiti da suore. Questa sera insceneranno la loro parodia di Sister Act. Vado a buttarmi nella mischia. In realtà cercherò un localino con luci soffuse e piano bar.

Londra, anche sotto la pioggia, è stata splendida e non mi ha deluso neanche questa volta. Al Covent Garden un terzetto d’archi di giovanissime giapponesi suonava Handel e Ravel con grazia celestiale, interrotte – di tanto in tanto – dal fragore dei tuoni. In un antico pub, in una strada laterale, ho sorseggiato, seduto ad un vecchio tavolo di quercia lucidato dai gomiti degli avventori, un’ottima birra che non é stata neanche il motivo principale per entrarci: avrei pagato anche solo per il piacere di occupare quell’angolo vicino al camino.

Mentre la Mediterranea si allontana e il mare, inaspettatamente, sembra calmarsi, mi godo un’ultima volta lo spettacolo delle bianche scogliere e saluto il bel faro, anch’esso bianco, che assomiglia a una pedina degli scacchi. Sul balcone tira ancora un forte vento che contrasta l’apertura della porta e fischia forte nelle guarnizioni. Ho addosso maglione e piumino. Come ve la passate nel Salento? Siete già in bermuda e canottiera? Abusando della mia condizione di viaggiatore privilegiato, non invidio per nulla i vostri 30 gradi. Preferisco questo scampolo residuale d’ inverno che mi son procurato, più o meno consapevolmente.

E poi, quasi inspiegabilmente, il mare si è calmato e la nave è sembrata scivolare, quasi come sospinta dall’inerzia impressa da quel forte vento di Dover, fino a Le Havre. Durante la notte le navi segnalavano la loro presenza nella nebbia a colpi di corno. Se ne sentivano, vicini e in lontananza, di tutte le tonalità. Credevo bastasse il radar. Navigare nel Mar del Nord con una nave che si chiama Mediterranea ha un che di provocatorio, meglio chiamarsi Mein Shiff 3 e avere lo scafo dipinto di nero (era con noi ad Amsterdam).

La Normandia ci accoglie, adesso, con una temperatura più mite e con una tavolozza di colori di una raffinata scala di grigi. Qualcuno spera nel bel tempo. Già da ieri, dopo il forte temporale di Londra, é tutto uno scambio di informazioni meteorologiche e di consultazioni sui siti specializzati.

Sono fortunato, per me il “bel tempo” ha un significato più complesso e articolato, se è il tempo del viaggio. Non mi concede un solo secondo d’orologio in più ma è come se mi dilatasse lo spazio intorno e amplificasse le percezioni di ciò che mi accade. Una sorta di alchimia che rende liquidi i confini fra le due dimensioni.

“Et s’en va vers Le Havre,
et s’en va vers la mer…” recitava Jacques Prevert nella sua Canzone della Senna, imparata a memoria alle scuole medie. Poi continua: “…portandosi dietro i misteri e le miserie, quanto di buono e di cattivo ha raccolto da Parigi”. Di fronte al porto c’è l’estuario della Senna, con le chiatte da trasporto pronte per ripartire verso la capitale, cariche di ogni tipo di materiale. La mia professoressa sarebbe contenta se sapesse che ricordo ancora quella poesia in lingua francese, parola per parola.

Da meridionale che si rispetti mantengo sempre viva la capacità di stupirmi, a volte anche esageratamente, e di non sprecare mai le piccole soddisfazioni. Ieri, a Londra, qualcuno mi ha chiamato “sir”. Mi sono sentito tanto Francis Drake e Lancillotto (ma anche, e soprattutto, Mr. Bean).

.

Pubblicato in: Diario di viaggio, Ricordi

I Vespri di Notre Dame

I Vespri di Notre Dame.

Un foglietto piegato in quattro, che cade da un libro di fotografie preso dalla libreria, mi fa fare un inaspettato viaggio indietro nel tempo. Il viaggio, ideale e nostalgico, nello spazio era già premeditato; perché, se no, decidere di sfogliare un libro di foto dei capolavori del Louvre? La coincidenza del periodo mi sorprende: era proprio la Settimana Santa di qualche anno fa.

Un giorno, forse, si potrà ritornare a Parigi in relativa sicurezza e si potrà assistere ai vespri di Pasqua sotto la nuova volta di Notre Dame. Ma, per ora, la Pasqua è segregata e anche la cattedrale più famosa della Francia è inagibile: è ancora un cantiere aperto, lo sarà per diversi anni a venire.

Quella volta, la funzione religiosa era finita e non assistetti al vespro. Presi quel foglietto dei canti da un banco, come un originale e improprio souvenir, prima che il sacrestano li ritirasse. Se, invece di oggi, avessi ritovato quel foglio fra qualche anno, giocando con la debolezza dell’età e la confusione dei ricordi avrei potuto giurare di aver assistito veramente a quella celebrazione, come se ci fossi andato di proposito. Scrivere di fare cose normali in posti speciali paga sempre al narratore, gli conferisce un’aura da cittadino del mondo. In realtà, sappiamo tutti il tour de force che spetta al viaggiatore low cost in una capitale, con il tempo contingentato dal volo di ritorno. In quell’ipotetico futuro, ne avrei parlato con gli amici e sicuramente lo avrei anche scritto, partendo dal pretesto dello strano ritrovamento del foglio nel libro di foto. Forse, mischiando memoria e immaginazione, sarei potuto arrivare fino a descrivere la potenza dell’organo, quando il maestro apre i mantici e le canne vibrano, e poi le voci limpide del coro, di stampo gregoriano, filtrate dall’amplificazione e prolungate dall’eco naturale delle altezze gotiche delle volte. Lo avrei descritto con minuziosità di particolari, come faccio sempre, e con una naturalezza un po’ simulata, che avrebbe celato una punta di snobismo…

Ora che ci ripenso, però, quella volta organo e coro erano reali. Reali come l’odore dei ceri votivi e il colore caleidoscopico delle vetrate. Reali come le maschere dei visi di passaggio, rischiarati dalle fiammelle dei candelieri.

Non è solo suggestione, indotta dalla smania di raccontare. Sono un ricordo vero che l’età e la confusione mentale avevano riposto da qualche parte, fuori dai percorsi della memoria. Ora che l’ho ritrovato, mi emoziona come se fossi lì, forse ancora di più di allora, e, un po’, mi strugge.

Pubblicato in: Poesia, Racconti, Ricordi

La Luna dei Borboni

scritture

La luna dei Borboni

di Lorenzo De Donno

Le poche strade che si percorrevano abitualmente con l’auto di papà avevano nomi molto semplici: la via del mare, che era la strada per Otranto, la via dell’Upim , che era quella che portava a Lecce. Perché un ragazzino della provincia degli anni 70 amava Lecce solo perché c’era la Upim, con il suo reparto dei giocattoli. Amava la Upim a prescindere, e Lecce di riflesso, perché conteneva quel fantastico magazzino.
Le strade extraurbane erano strette e lunghissime all’epoca, e le auto rumorose e lente, per cui anche durante il tragitto, per marcare l’avanzamento, si fissavano dei punti di riferimento. Sulla strada di Otranto, ad esempio, c’era la Casa Rossa, prima dei tornanti, che annunciava l’imminente arrivo in spiaggia. Al ritorno, a pochissimi chilometri dal passaggio a livello che faceva da porta d’ingresso di Maglie, avremmo trovato invece la lugubre “Casa dei Fantasmi”, un’antica masseria, apparentemente disabitata, protetta da un boschetto di alti pini. Quando si andava a Lecce, invece, era la “Casa delle Fate”, che si incontrava sulla sinistra, a preannunciare l’imminente arrivo alla Upim.
La “Casa delle Fate”, la definivamo così per il suo stile liberty, eccentrico e un po’ sfacciato. Per gli intonaci colorati, per le porte e le finestre dalle vetrate fantasiose. Solo quando fui più grandicello seppi che quella singolare dimora liberty era appartenuta al più grande tenore di tutti i tempi: Tito Schipa. E’ la sua voce che augura il mezzogiorno ai leccesi, tutti i giorni dell’anno, in piazza Sant’Oronzo. I turisti ne rimangono sorpresi e incantati perché la voce del tenore sembra scendere dall’alto, morbida e argentina, come se fosse riprodotta da un vecchio grammofono. Si guardano attorno e poi cercano la fonte della musica, proteggendosi con le mani gli occhi dal sole, che in quel momento è allo zenith.

L’appuntamento a Lecce era per la prima mattinata e, come ogni impegno di lavoro, era richiesta la puntualità più assoluta. Dovevo partecipare a quell’incontro accompagnato da un collega che proveniva da un paese più a nord di Lecce. Stabilimmo di trovarci nel parcheggio del Cimitero, di solito più libero di prima mattina, dove avremmo lasciato le rispettive autovetture, per proseguire a piedi verso il centro.
Arrivati sul posto ci rendemmo conto che era ancora troppo presto, nel frattempo fui raggiunto dalla telefonata di un terzo collega che mi preannunciava uno slittamento dell’appuntamento. C’era più di un’ora di tempo che si poteva occupare per fare colazione o per passeggiare nel barocco. Guardandomi alle spalle, notai che i custodi del Cimitero stavano aprendo i cancelli.
Entriamo nel cimitero ? – proposi al mio giovane collega.
Per far cosa – mi rispose lui, perplesso.
Per visitare la Tomba di Tito Schipa – dissi io – improvvisando una motivazione valida che speravo potesse essere condivisa –
Ok, vada per il cimitero…- Era evidente che lo facesse per accontentarmi.
Ci incamminammo verso il viale. Nel frattempo le persone che avevamo visto attendere fuori dai cancelli, con i mazzi di fiori in mano, si erano già disperse nei vialetti e fra le tombe. La giornata estiva si preannunciava molto calda, come le precedenti, per cui in molti avevano anticipato la visita ai loro defunti. Ben presto ci rendemmo conto che il Cimitero era veramente molto grande, diviso per aree secondo l’epoca di edificazione delle cappelle e delle tombe. Girammo senza una meta per alcuni minuti, sperando di trovare un’indicazione per la tomba del tenore. Probabilmente ci passammo anche vicino senza notarla. Alla fine fermai una signora che aveva l’aspetto di una persona ben informata e le chiesi indicazioni.
-Mi dispiace – rispose – è imperdonabile per una leccese…non l’ho mai notata. Sarà in un’area che non è nel mio giro abituale…-.
Fermai altre due signore. Una delle due mi rispose in dialetto:
-Ci ete stu Titu? Eh fiju miu, ca mancu visciu bbonu…
E l’altra: – No, mai saputo dov’è…-.
Stavamo per andare via. Ma avevamo sollevato un caso perché le quattro/cinque persone alle quali avevamo chiesto le informazioni, non si limitarono a dirci che non ne sapevano nulla ma, incontrando altri conoscenti, chiesero a loro volta. Ce ne accorgemmo seguendo da lontano il passaparola. Alla fine una persona di quelle che avevamo fermato si imbatté in una dolcissima nonnina, accompagnata dalle nipoti, che era una lontana parente del tenore. Si offerse di accompagnare “i signori che volevano visitare la tomba dello zio” e le nipoti vennero a rincorrerci mentre stavamo per uscire dal cimitero. Ritornammo volentieri sui nostri passi. Fu così che si creò un piccolo corteo: la nonnina davanti, che camminava lentissimo, noi dietro di lei, e dietro di noi le altre persone alle quali ci eravamo rivolti. Nessuno dei coinvolti nella nostra ricerca voleva perdersi la visita alla tomba di Tito Schipa. Arrivammo al sarcofago del tenore che eravamo una decina di persone. La nonnina mi indicò un’altra tomba molto vicina. – Qui riposa Bodini – mi disse – Ha presente “La luna dei Borboni? -.

“Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.”

Pubblicato in: Ricordi

Le Donne di Otranto

wpid-20150726_161137.jpg

“Sopravvive ancora ad Otranto, nonostante tutto, una generazione di donne, anziane ma ancora fondamentali, mai contaminata dalla frenesia della vita vacanziera.

Vestali della casa e della famiglia,  si  alzano di primo mattino,  quando ancora i  gruppi sparsi di giovani si trascinano per le strade, in attesa del definitivo sfinimento che li accompagnerà per buona parte del giorno.

Ascoltano la prima messa in Cattedrale, inalando l’ aria densa che sa di ceri, d’incenso e di antico che solo in quel luogo si può respirare. All’uscita, solo poche parole di saluto alle amiche di sempre, poi passano velocemente dal mercato coperto e si rifugiano, prima che il sole infuochi le strade, nelle stanze ombrose dei piani terreni. Si tratta di case che erano vecchi depositi, seminterrati e rimesse; metri quadri diventati preziosi, riadattati ad uso abitativo perché la “casa buona”, che spesso è al piano di sopra, viene affittata ai villeggianti per la stagione.

Sono splendide anziane dalla pelle bianca ed appena segnata dalle rughe, sotto il sole inumidita dal sudore. A volte silenziose ma mai remissive, sempre orgogliose. Non hanno modi raffinati ma la loro educazione è ferrea ed intransigente. Vestite di abitini scuri (perché i loro lutti non hanno scadenza) , cuciti su misura e facili da gestire in tutte le situazioni della giornata. I loro capelli non conoscono tinte e vengono tenuti corti o legati stretti, perché per natura ribelli.

Non vanno in spiaggia e non fanno mai il bagno al mare, ma capita che si bagnino i piedi, lontano da occhi indiscreti. Assaggiano l’acqua salata quando si sciacquano la faccia, quelle rare volte che sfidano lo scoglio.

Trascorrono le loro giornate nelle cucine e, quando hanno finito i lavori, si svagano ricamando o osservando i passanti dalle finestre o dalla soglia di casa. Aspettano i mariti ed i figli che rientrano, all’imbrunire, dai poderi o dai villaggi turistici. Quando cucinano non si risparmiano e le loro pietanze, semplici e sostanziose, non conoscono concorrenza di cuochi e ristoratori. E’ per questo che, a metà pomeriggio, passeggiando nel dedalo di viuzze del centro storico, si sentono gli odori stuzzicanti dei fritti ed i profumi dei sughi. La domenica mattina i camini fondono il fumo delle braci all’odore delle rosolature, delle salse piccanti di peperoni secchi e sponsali, delle polpette croccanti con il cuore bollente e della carne di maiale nel sugo di pomodoro, cotto per ore su “una fiamma di candela”…”.

Qui si interrompe il mio manoscritto, presumibilmente dei primi anni 90, ritrovato in casa per un caso fortuito. Peccato non avere il seguito…

Pubblicato in: Racconti, Ricordi

Nino, la strega e l’arte del tombolo.

image

Nino, la strega e l’arte del tombolo

Racconto di Lorenzo DE DONNO

– Insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole lassù…-, quell’estate le stazioni nazionali trasmettevano ripetutamente questa canzone, che risuonava in tutte le case, con la pessima qualità consentita dai piccoli altoparlanti delle radio casalinghe, nell’era prima dell’avvento dell’Hi-Fi.

La stanza era rischiarata da un fascio di luce. E’ strano come i raggi del sole, così totali e indefiniti all’esterno, si taglino in prismi o coni perfetti quando entrano in casa da un’apertura o da una persiana accostata. Solo in quel caso ci sembrano materici, consistenti, inspessiti dal pulviscolo che vi fluttua all’interno.

Nascosto dietro l’anta di una porta socchiusa che, dal giardino, dava sul soggiorno della casa, Nino percorse con lo sguardo quella striscia di luce che attraversava l’ambiente e colpiva un mobile antico di mogano lucidato a cera, mettendone in risalto le fibre rossastre. Si sforzò di percepire cosa ci fosse nella stanza e, alla fine, gli occhi si adattarono. Al di là di quella tenda di luce e pulviscolo, scorse la donna, seduta nella penombra ed impegnata in un’attività che non aveva mai visto fare prima da nessuna delle sue parenti o conoscenti. Davanti a LEI c’era uno strano attrezzo a forma di trespolo, simile ad un leggio, sormontato da un cuscino cilindrico sul quale, facendo roteare vorticosamente fra le dita dei rocchetti di filo, stava tessendo una trama, come tela di ragno, nella quale aveva già imprigionato, fissandoli con lunghi spilli, omini, case e fiori. Alle sue spalle, appesa al muro, c’era una collezione di farfalle,  montata su di un pannello rivestito da velluto rosso, fra due antiche foto-ritratto color seppia e i bagliori luccicanti di mille arcobaleni, riflessi dai cristalli del paralume di una lampada.

Irma aveva circa trent’anni, una carnagione scurissima avvezza al sole ed alla salsedine, il naso appuntito, capelli ricci e neri legati in alto e che, in parte, le ricadevano, con ciocche ribelli, sulla fronte e sulla nuca. Indossava una sottile vestaglia, nera e larga, come una grande tunica di garza, che dava un senso di drammaticità alla sua figura.

Nino e gli altri ragazzi non l’avevamo accolta bene, quando si era trasferita nella polverosa periferia del paese ed aveva occupato la casa di una sua vecchia zia. Probabilmente avevano colto anche qualche perplessità e la diffidenza espressa dagli adulti. All’epoca, infatti, fra la gente dell’entroterra salentino, vigeva un forte preconcetto di scarsa moralità nei confronti delle donne che abitavano i porti di mare, ritenute più sfacciate ed abituate a trattare con la vasta e variegata umanità della marineria e con tutto ciò che ad essa girava intorno.

La donna era verosimilmente una strega, o almeno così la ritenevano i ragazzi del rione, per tutta una serie di motivi. Perché sembrava non amare i bambini, ostacolandone i giochi in prossimità della sua casa e del suo giardinetto. Perché proveniva da una lontana città di mare ed aveva – come ho già detto – la pelle scurissima ed i  tratti mediorientali: ce n’era abbastanza da ipotizzare che nelle sue vene circolasse il sangue di un antico incursore saraceno. Perché, come ogni strega che si rispetti, possedeva un gatto viziatissimo che adorava, dal pelo lungo e scuro, al quale si rivolgeva come se fosse un essere umano, riservando ad esso delle attenzioni oggettivamente sproporzionate rispetto alla media condizione felina del tempo. Infine perché, nel parlare, aveva una strana “esse” sibilata, come il verso di un serpente…

– “Dammela sssubito!”, gli aveva ordinato, con la sua terrificante esse sibilata, la sera prima, quando lo aveva sorpreso nel bel mentre catturava una grande farfalla notturna dalle fronde della sua pianta più fiorita. La donna stava tenendo, probabilmente, già sotto controllo il ragazzino da quando si era “pericolosamente” avvicinato al suo giardinetto.

La regina delle farfalle, verso l’imbrunire, si era lasciata tentare dal nettare profumato di miele e limone della lantana di Irma,  e Nino, all’epoca ancora in possesso di tutte le sue diottrie, ne aveva colto il volo morbido e l’atterraggio regale.

Solo dopo molti anni il ragazzino avrebbe saputo che quella farfalla, probabilmente l’ultima che avrebbe visto di quella specie rara, perché l’età lo avrebbe privato dello stupore e, forse, anche della sensibilità e della fantasia necessaria per fare quelle scoperte, era una “Eudia Pavonia”, nome degno di una nobile romana di epoca imperiale per una splendida creatura dalle ali smerlate, spesse e vellutate, sulle quali si distingue il disegno di quattro grandi occhi, iridescenti e simmetrici, simili a quelli delle piume del pavone.

Di solito, la caccia di Nino si concludeva con la liberazione o la fuga delle prede. Qualche farfalla più delicata, a volte, ne usciva un po’ malconcia, ma viva. Vigeva una strana etica fra i ragazzi del rione, nel presupposto di base che qualsiasi animale o insetto potesse potenzialmente rappresentare un bersaglio mobile, non foss’altro che per mantenere esercitata la mira. Le lucertole potevano essere accalappiate utilizzando delle piccole forche realizzate annodando la sommità delle cannucce della biada, raccolte quand’era ancora verde e flessibile. Una volta catturate dopo un’attenta caccia sui muretti a secco, le trascinavano via al guinzaglio, incuranti delle “finte” dei piccoli rettili; altre volte si divertivano a provocare loro le convulsioni, ingozzandole con una presa di tabacco ricavata da un mozzicone. Agli uccelli si mirava con la fionda, caricata con pallini di piombo, mentre i loro pulcini, caduti dai numerosi nidi costruiti fra le fronde dei pini, erano oggetto di amorevoli, quanto inutili, cure da parte di tutti. Ad un malcapitato riccio, che aveva sconfinato dalla campagna vicina, veniva dato da bere del vino rosso, per non farlo richiudere su se stesso e poterci giocare a lungo, approfittando della sua ebbrezza. Una gallina, scappata da un pollaio, poteva essere inseguita nei campi fino a quando si aveva fiato. Le api e le farfalle godevano di una certa immunità, per reminiscenza scolastica, data la loro decantata utilità nel processo dell’impollinazione. Da altri rioni giungevano notizie di sevizie a cani e gatti, ma da ciò ci si dissociava, come si direbbe oggi.

Prima ancora che potesse opporsi, la “strega” aveva scavalcato il cancelletto del giardino, gli aveva afferrato i polsi e tolto la farfalla, prendendola con maestria dall’addome, lasciando sulle sue mani solo la traccia bruna delle scaglie pigmentate delle ali, la “polverina”…

Il ragazzo avrebbe fatto bene a non seguirla fin sulla soglia della casa, come invece fece. La scena che vide in seguito gli diede la misura di quello che quella donna poteva arrivare a fare. Una volta nella stanza, infatti, Irma si diresse con decisione verso la cassetta dei suoi attrezzi da cucito e ne tirò fuori uno spillone ed un pezzo di cartoncino sul quale sistemò la farfalla con le ali ben aperte. Poi, con un gesto deciso, le trapassò la piccola testa con lo spillo. Un nuovo trofeo da aggiungere alla collezione.

A Nino sembrò di udire lo scrocchiare delle cartilagini che si spezzavano, o forse era solo il rumore del cartoncino perforato dallo spillone. Scappò verso casa inorridito, non tanto per l’uccisione che, ai suoi occhi, assumeva comunque ben altro peso se compiuta da un adulto, ma per aver colto, nel gesto al quale aveva assistito, l’essenza di un rituale macabro o tribale. Corse forte, schivando i rovi ed i fichi d’india, con il sudore che si portava via strisce di polvere bianca dalle pelle, accumulatasi in un intenso pomeriggio di giochi, per rifugiarsi fra le braccia della mamma che lo accolse con le mani ancora fredde di bucato e inspessite dalla varechina.

Se la vendetta è un piatto che va  servito freddo, Nino quella sera sbagliò tutto perché, appena fu buio, convinto com’era che Irma fosse una strega da contrastare e punire, ritornò sui suoi passi, scavalcò il cancelletto e devastò il giardinetto della donna, rompendo i gerani rossi e girando sottosopra ogni vaso che riuscisse sollevare. Non risparmiò neanche il cespuglio di lantana arancione e i suoi mille capolini che profumavano di miele e di limone.

– Cercavo in te la tenerezza che non ho, la comprensione che non so trovare in questo mondo stupido…-, continuava a gracchiare la radio dalla mensola di quel soggiorno di mogano rosso.

Mentre Nino la osservava, non visto, Irma si tirava su un ricciolo ribelle dalla fronte sudata e continuava a lavorare alla sua tessitura, incrociando incessantemente i rocchetti ed i fili e puntando gli spilloni sul cuscino cilindrico del suo attrezzo, canticchiando anche lei il ritornello della canzone.

Poi la vide alzarsi, andare nell’altra stanza per riapparire dopo qualche minuto con un piatto ed un tovagliolo e dirigersi verso il punto che sembrava più nascosto del soggiorno. Nino, dal suo osservatorio, aguzzò gli occhi e capì che Irma non era sola. Scorse, infatti, la figura di una vecchia in camicia da notte, seduta su una carrozzina da infermo. La giovane donna si avvicinò e incominciò a imboccare l’anziana zia, parlandole dolcemente ed insistendo con il cucchiaio quando questa dava segni di stanchezza. Quanto ebbe finito di rifocillarla, le riassettò con cura i radi capelli bianchi con rapidi movimenti delle dita e ritornò alla sua postazione di lavoro.

– “Che razza di strega è questa, che piange per dei fiori strappati e accudisce una vecchia?”, si domandò il ragazzo, pensando alle lacrime che aveva visto versare da Irma quella stessa mattina, appena aveva scoperto la devastazione dei suoi fiori. Si era affacciato presto alla finestra della cucina, prima ancora che le cicale dessero il cambio ai grilli, per assistere al risveglio della strega. Irma era rimasta impietrita, poi si era seduta sul muretto ed aveva pianto tenendosi il viso fra le mani, mentre lo scirocco le imbrogliava i capelli. Nessuna bestemmia, nessun maleficio lanciato ai quattro venti…

Forse la vecchia zia non era morta, come gli era stato detto, forse la giovane nipote aveva lasciato la sua bella casa sulla riva del mare per aiutarla, forse si arrabbiava con i ragazzi perché disturbavano il sonno della malata, forse era sfinita dal suo lavoro di ricamatrice e snervata dall’ostilità che percepiva intorno a lei, forse il suo gatto le riempiva un vuoto di affetti. Forse.. forse…forse….

Nino lasciò il suo osservatorio e tornò, pensieroso, verso casa.

Passarono gli anni e, come se la “strega” quel pomeriggio lo avesse colpito con un sortilegio, ad ogni tappa successiva della vita di Nino corrispose un miglioramento del rapporto con Irma. Ai suoi occhi di adolescente la cattiveria della donna si stemperò per poi svanire, e, quando fu uomo, le fattezze da strega si trasfigurarono in quelle di una matura signora. I suoi modi perfino gentili e poi, addirittura, premurosi. Non si era sposata, neanche dopo la morte della vecchia zia, nonostante qualche giovanotto si fosse visto, nei paraggi, a farle la corte. Le sue mani continuavano ad intrecciare i fili con la stessa velocità di quando era ragazza e, quello sì, aveva qualcosa di prodigioso! Era rimasta in paese e non aveva più fatto ritorno nella sua casa di pietra in riva al mare, chissà perché!

Era diventata la sua cliente più affezionata del banco dei salumi dove lavorava. Ormai la incontrava ogni mattina, nel negozio di alimentari, lei sempre attenta ai suoi consigli sulla scelta dei prodotti più freschi. Nino, ogni tanto, si soffermava a riflettere su come fosse cambiata, stentando a riconoscere la persona di un tempo, la donna che lui, che tutti, definivano “strega”. Anche il vecchio gatto, vissuto vent’anni in perfetta simbiosi con la padrona,  non soffiava più e si lasciava accarezzare. Domande alle quali non sapeva darsi una risposta fino a quando, un giorno, gli fu tutto chiaro ed ebbe, finalmente, la consapevolezza di essere stato lui a maturare ad a cambiare, liberandosi da ogni pregiudizio.  Capì che Irma, in fondo, era sempre rimasta la stessa …

Scritto con WordPress per Android

Pubblicato in: Ricordi

La scrittura segreta delle lumache

wpid-2015-04-04-17.02.09.jpg.jpeg

Racconto di Lorenzo De Donno

La primavera non arrivava mai inaspettata in quel cortile, stretto fra due file di vecchie case, nel centro di Maglie. Alla fine dell’inverno, tante vecchie latte, catini di creta e ogni altro recipiente che potesse contenere una manciata di terra rossa diventavano vasi dove piantare zinnie, dalie, fucsie, bocche di leone di tutti i colori, gerani rossi e viola, piccoli garofani profumati.

E’ banale associare le rondini alla primavera, eppure in quella zona, la porzione di cielo che si vedeva alzando lo sguardo, fra i muri di pietra leccese imbiondita dal tempo, era un intreccio di voli e un concerto di garriti, specie nel tardo pomeriggio, quando gli uccelli banchettavano con le zanzare ed i moscerini.

Il nonno sistemava queste piante su assi di legno appoggiate su grossi conci di pietra, che erano in quel cortile da secoli, nell’angolo più soleggiato. Sulle assi più in fondo i gigli bianchi e gli amarilli rossi, coltivati nei catini e nelle latte più capienti. Davanti, invece, le piante più basse e folte. Sul muro di lato fioriva, nonostante affondasse le esili radici   nel pavimento di chianche, un cespuglio di gelsomino semplice, dai piccoli fiori bianchi e profumati e dalla chioma scomposta e ricadente come i capelli di una vecchia pazza.

Ogni pomeriggio, appena il sole scendeva oltre i muri, il nonno  annaffiava le sue piante attingendo l’acqua dalla cisterna, che era proprio al centro del cortile. Sollevava il coperchio di ferro ed apriva un passaggio in  un mondo misterioso e oscuro.

Avevamo qualche attimo per vedere il riflesso dell’acqua ferma, qualche metro più sotto. Il secchio vuoto, lasciato cadere con gran fragore di catena, lo spezzava in mille frammenti, poi riemergeva, pieno d’acqua, portando su il profumo umido e freddo della cisterna.

Come fa un bambino a definire uno spazio buio oltre una “botola”? All’epoca non si riteneva utile dare spiegazioni ai bambini. E i nostri vecchi avevano un modo infallibile per tenerci lontani dai pericoli: la paura! Bisognava stare lontani dalla cisterna e, men che meno, tentare di usare il secchio, perché “potevano” tirarti giù in acqua in un attimo, mentre serravi fra le mani la catena pesante. ” Potevano”, certo, ma chi? Ognuno di noi piccoli, davanti a situazioni non conosciute, era libero di fare le proprie deduzioni sulla base delle sue, limitate, cognizioni tecniche e della  propria smisurata immaginazione.

Infatti, se mai avessi creduto all’esistenza di creature misteriose, sirene e mostri acquatici, pesci dai grandi occhi, sicuramente avrebbero abitato quelle acque scure. Grotte, passaggi segreti, tutto poteva essere reale in quel luogo inaccessibile.

Il secchio risaliva lentamente, sfiorando le scie luminescenti di bava lasciata dalle lumache sulla bocca della cisterna, frenato dal peso del suo contenuto e riversando un po’ dell’acqua raccolta ogni volta che una delle mani cambiava la presa, mentre l’altra si allungava verso il basso a trovare il punto più lontano della catena. Intanto il riflesso del cielo, sotto, si ricomponeva piano piano. Scie di bava che diventava lucente come madreperla sulle pietre scure di muffa, che disegnavano scritture indecifrabili, forse minacce degli abitanti dell’acqua buia contro chi avesse mai tentato di avventurarsi in quel mondo liquido e sotterraneo. Per questo ogni volta che riuscivo a sporgermi all’interno della cisterna, sorretto dalle forti mani del nonno, gridavo con tutta la mia voce:  – SCEMO!!!!!!

E attendevo che le creature dell’acqua, indispettite, mi rispondessero “scemo…emo….emo…”

Molti mi hanno chiesto di vedere quel cortile e quella casa. Anch’io vorrei rivedere quei luoghi. Quella zona fu demolita negli anni ’70 e, al posto di quelle vecchie case, fu costruito un locale commerciale. Con quella demolizione finì un’ epopea…Tanti personaggi ci ruotano intorno. “Nunna” (madrina) Rosetta, che svuotava con discrezione il vaso da notte nel pozzo nero comune, sua figlia Elsa, la sarta, che sposò il suo amato Pippi ed andò con lui in Svizzera. Ogni estate ritornavano per le ferie con il loro bellissimo pulmino Volkswagen bianco e azzurro. Loro due sono ancora in vita, li incontro spesso, innamorati ed inseparabili. La loro nipote Gianna , una bambina bionda che sembrava non toccare terra tanto era leggera ed eterea, morì di leucemia lasciando me e mia sorella, suoi compagni di gioco, per la prima volta nella vita a interrogarci su cosa fosse la morte. Il loro cugino Nunù , che sembrava un attore di operetta tanto era imbrillantinato, deferente e compìto. Arrivava quasi ogni pomeriggio con la sua Opel Kadett lucidissima, color pistacchio, con le ruote a fascia bianca.

Abitava di fronte, con i vecchi genitori, Anna Rosa, una ragazza down dolcissima, innamorata platonicamente (sicuramente non era l’unica, solo che lei lo diceva a tutti ) del Capo dei Vigili Urbani di Maglie. Attendevamo ogni pomeriggio, con lei, che l’irreprensibile Comandante Rizzo passasse dall’angolo perché potesse vederlo e salutarlo. Di fianco viveva una vecchia vedova con tanti figli grandi, le mancava un occhio e mi faceva impressione. Si diceva fosse stato  il marito ad averle fatto quel danno ma, oramai, costui era morto da decenni. E ancora, in una stanzetta d’angolo abitava la “bambola” , una povera donna con figli piccoli e senza marito che riceveva uomini in casa… E poi… e poi… ci sarà una nuova storia da raccontare!

https://culturasalentina.wordpress.com/2011/04/07/la-scrittura-segreta-delle-lumache/

Pubblicato in: Ricordi, Storie di strada

Quanti anni avremo nel 2000? (Storie di strada n.1)

image
Calendario del 2000 del settimanale Panorama

Quanti anni avremo nel 2000?- Mi domandò,  all’improvviso,  il mio amico Salvatore mentre, con i grembiuli blu addosso e la cartella in mano, ci recavamo, come ogni mattina,  alla scuola elementare, distante oltre un chilometro dalle nostre rispettive case. I nostri percorsi individuali si incrociavano nei pressi di un giardinetto spartitraffico e da, quel punto, continuavamo insieme. Ed era lì che ci salutavamo, al ritorno, non prima di aver ricordato, l’uno all’altro, i programmi più belli da vedere, nel pomeriggio, alla TV dei ragazzi.

 Eravamo una curiosa coppia di compagni, Io pallido e  magrissimo, con le rotule ben in vista sotto i pantaloni corti, piuttosto riservato. Salvatore, invece, era un bambino rotondetto ed allegro, dalla simpatia immediata e sempre pronto a scherzi di ogni tipo .

Cominciai a pensare alla sua strana domanda e, mentre cercavo di fare i calcoli a mente, attraversai la strada, incurante del sopraggiungere di una vettura, lanciata a velocità sostenuta. L’automobilista fece appena in tempo a inchiodare i freni e la macchina si arrestò a un passo da me, con grande stridio di gomme.

– Quando arriverà il duemila io avrò quasi 41 anni e tu, che sei nato dopo, ne avrai ancora 40! – E con questo intendevo sottolineare che, essendo nato in gennaio, ero più grande di lui.

Aspettai che alla mia risposta non seguisse un tranello scherzoso (come capitava spesso nei nostri discorsi)
e aggiunsi, con un pizzico di scoraggiamento – Saremo vecchi, vecchissimi!…-

L’automobilista ebbe un gesto di disappunto, che si trasformò fluidamente in un segno di croce: Padre, Figlio e Spirito Santo. Proprio in fondo al viale si innalzava, con la sua bella e slanciata facciata barocca, la Chiesa dell’ Addolorata. Il giovane sacerdote (il guidatore era, infatti,  un prete), che aveva già perdonato la mia disattenzione, rimise in moto la macchina.
 

– Briin!…Briin! – La 850 azzurra si avviò e il rombo, inconfondibile, delle Fiat degli anni 60, rotondo e simpatico, riecheggiò nel viale alberato.

– Briiiin!…- L’auto si allontanò accelerando, lasciando dietro di sé una nuvoletta azzurrina di gas di scarico.

Salvatore era perplesso. Anche lui completamente preso dal dilemma, mi aveva seguito nell’attraversamento distratto e si dimostrava, come me, del tutto estraneo al pericolo appena corso da entrambi.

– Nel  duemila – disse con tono preoccupato – ci sarà la fine del mondo e moriremo tutti!-.

Era questo il messaggio che voleva darmi: condividere la sua preoccupazione e circoscrivere la nostra vita residua. Peraltro lui era più bravo di me in matematica (e continuò ad esserlo anche dopo) e non avrebbe avuto bisogno dei miei calcoli…

Continuammo, senza più parlare, il percorso per raggiungere la scuola. Con una mano reggevamo la cartella di fintapelle (perchè, all’epoca, non esisteva ancora la tracolla o lo zainetto), con l’altra tenevamo giù il fiocco di nastro bianco, bruciato sugli orli , perchè il vento non ce lo rigirasse sul viso….

(Incontro Salvatore ancora oggi, quasi ogni mattina, nei pressi di quello spartitraffico. Lui passa di fretta, in macchina, per raggiungere l’azienda in cui lavora ed abbiamo solo un secondo per un cenno di saluto. Per un caso della vita, le nostre strade per andare a lavorare si incrociano nel medesimo punto di quando eravamo bambini, pur partendo dalle nostre case e non più da quelle dei rispettivi genitori. Abbiamo superato il 2000 e siamo ancora vivi!)

Lorenzo De Donno

Pubblicato in: Racconti, Ricordi

Il cimitero

Mi affacciavo alla finestra e il mio sguardo – istintivamente – correva  nella notte, oltre la foschia ed i muri di cinta dei giardini, oltre la strada statale ed i binari della ferrovia, fino al camposanto,  laddove i morti riposavano. Quasi sulla linea dell’orizzonte, illuminati dalla luna, si stagliavano gli altissimi cipressi, come lunghe dita nere della terra. 

Immaginavo i viali bordati di pitosforo profumato, le fiammelle tremolanti sotto vecchi
mazzi di fiori semiappassiti e macerati nell’acqua maleodorante dei vasi.

Mi aveva sempre dato inquietudine il cimitero. Ricordo ancora quell’odore nauseabondo e dolciastro che filtrava dalle lapidi nei pomeriggi d’estate, quando la morte, travestita da calura estiva, vagava per i vicoli e le corti del paese in cerca di vecchietti stremati dal caldo e dagli anni… da portare via.

Accompagnavo le mie zie, all’epoca assai giovani, a cambiare l’acqua ai fiori dei loro defunti. “Loro” perchè avevo ancora la fortuna di non conoscere cosa significasse la perdita di qualcuno. Le persone a cui volevo bene mi erano tutte vicino, quei morti non mi appartenevano…
 
– Cos’è questo cattivo odore? – chiedevo, mentre percorrevamo un corridoio al secondo piano di una specie di alveare dove le cellette servivano per stipare i morti. Se si correva lungo quel corridoio fissando una sola fila di loculi, le foto di facce sconosciute si susseguivano, quasi animandosi, come in un effetto cinematografico che ti faceva vedere un unico volto che cambiava sembianze di continuo.
Figure di uomini e di donne, qualche sfortunato giovane, foto recenti e ritratti antichi impressi nella ceramica ingiallita, alcuni sbiaditi e sfumati come il ricordo. Sembravano attendere figli, nipoti o parenti distratti o troppo lontani.
 
– Nulla – rispondevano le zie, minimizzando – E’ colpa della gente che non cambia l’acqua dei fiori che marciscono nei vasi! Noi, invece, la cambiamo un giorno si ed uno no, così ci durano tutta la settimana… Vedi quanto sono belli ancora i garofani? Saranno a posto fino a sabato….-

Non dissimulavano il loro disappunto quando, riconosciuta la foto di un loro conoscente o lontano parente defunto, si accorgevano che la tomba non era accudita come si doveva oppure, imperdonabile, se nel vasetto erano stati sistemati degli orrendi fiori di plastica (segno che nessuno dei congiunti aveva intenzione di occuparsene).

A volte trattenevo il respiro fino alla fine della scale, certo di ritrovare, all’esterno, il profumo del pitosforo e del sambuco in fiore.

Andavamo al cimitero un giorno si ed uno no, appena finito di mangiare, sotto un sole cocente.

 

Lorenzo De Donno

Pubblicato in: Ricordi

Il battesimo del mare

image

 

(Mi rimproverano in tanti di fotografare solo il mare, e sempre lo stesso mare…)

C’era un solo adulto su quella lancia “Archetti” di legno di mogano, alla barra del piccolo fuoribordo, e tanti ragazzini ad occupare le panchette davanti ed il sedile posteriore della barca. Noi di casa eravamo in quattro, poi c’erano alcuni amici del cortile, a volte un cugino o una cugina.

Sulla prua c’era un bel posto comodo, di forma triangolare, al quale tutti ambivano, ma era anche quello più esposto agli spruzzi e quello che costringeva chi lo occupava ad alcuni compiti da mozzo, come ripescare la sagola dell’ ormeggio con il mezzo marinaio, gettare in mare la “mazzara” ed altre piccole incombenze sia alla partenza che al rientro dalla navigazione.

Ognuno di noi aveva in dotazione un cuscinetto autogonfiabile, che agganciavamo ai pantaloncini con una fibbia simile a quella delle bretelle. Una scritta in rosso invitava a tirare con forza un cordino, in caso di bisogno. Avrebbe attivato la bomboletta di aria compressa che si trovava all’interno e gonfiato il salvagente. Inutile dire che, incoscientemente o inconsciamente, forse aspettavamo quel momento di emergenza che ci avrebbe consentito, prima o poi, di strappare il cordino e di assistere al “miracoloso” gonfiaggio del dispositivo.

Eppure la paura del mare, quando era un po’ mosso come accade spesso ad Otranto, l’avevamo, eccome se l’avevamo! Sarà per lo scetticismo del nonno, uomo di campagna, che preferiva rimanersene sul molo ripetendoci, ad ogni invito a salire a bordo, queste parole: “I peti…sempre allu tostu!” (traduzione: i piedi devono stare sempre sulla terraferma!).

E invece la nostra barchetta, piena di bambini, salpava allegramente, sospinta da quel motorino da sei cavalli che faceva quel che poteva per farla scivolare sul mare e per contrastare le onde che, puntualmente, si gonfiavano all’approssimarsi del faro rosso.

Mio padre coglieva sul nascere la nostra paura e ci faceva fare dei “giri di riscaldamento” al riparo, allargandosi piano piano verso il centro della baia e, quando si accorgeva che eravamo preoccupati per gli spruzzi e l’altezza delle onde, ci invitava a cantare… 
La canzone era sempre la stessa, un ritornello da ripetere all’infinito ricominciando daccapo ogni volta. Una canzone che avevamo scelto noi (a rileggerla oggi, anche un po’ ambigua…) che parlava di boschi e di funghi: Insomma… di terraferma.

Una canzone da cantare a squarciagola nel tragitto dal porto alle “grotte”, con le onde di traverso, alla ricerca del mare calmo al riparo della Punta e dalla tramontana. Chi avvistava un’ onda più alta e minacciosa, saliva di un’ottava, fin quasi a strozzarsi, per segnalare agli altri il pericolo incombente.

Finalmente lo specchio di mare calmo che ci ripagava di tutto. Mettevamo in acqua la scaletta proprio dove oggi c’è una massicciata di cemento (mentre prima c’era una grande grotta scavata dal mare) e non si contavano più i tuffi e le risalite (e questo per tutta l’estate, da aprile ad ottobre…). Poi sapevamo che,alla fine della gita, si doveva fare il percorso al contrario – per rientrare al porto – ma, per quello, c’era tempo!…

Scritto con WordPress per Android

Pubblicato in: Ricordi

Cesira ed Immacolata (Parte 2: Immacolata)

image

Il negozio di Immacolata, non lontano da quello di Cesira, era situato nel bel mezzo della via San Giuseppe, nel centro di Maglie, quando questa appariva  ben lontana dall’immagine attuale di strada dello shopping più o meno di lusso e non  ancora “nobilitata” dalle demolizioni che, alcuni decenni dopo, avrebbero creato la piazzetta dedicata ai “Martiri di Via Fani”. Proprio dove oggi c’è un franchising di borse e valigie, negli anni 60 esisteva ancora la merceria di Immacolata, la presunta sorella di Cesira, ancor  più presunta perché, nel loro modo di essere, le due donne avevano veramente poco o  nulla in comune.

Anche Immacolata era bassa e anziana ma al contrario di Cesira, che dava – come ho detto in modo forse irriguardoso – l’immagine di una pera avvizzita, lei era cicciottella tanto da sembrare “compressa” nei sui abiti  neri. Dalle maniche a tre quarti dei golfini, infatti, le spuntavano avambracci, stracarichi di bracciali tintinnanti, simili a salsicciotti  ben gonfi nel loro budello. Una collana di perle finte, ingiallite dall’uso, si appoggiava su due tette ingombranti e compresse, anch’esse, nel busto.   Aveva una carnagione chiarissima, la pelle solcata da una trama di rughe, capelli ossigenati e messi in piega, le labbra sottili che, fra le guance gonfie, erano sempre truccate con un rossetto “rosso senza compromessi”.   Non ricordo il colore degli occhi, tanto erano inaccessibili e nascosti dai cerchi infiniti delle lenti da miope montate su un occhialino a farfalla di celluloide nera, ma ho ben presente la sua voce secca e rauca per il fumo di sigaretta.

Devo fare veramente un forte sforzo per ricordare. Mentre da Cesira ci andavo ogni giorno, da Immacolata ci andavo ogni tanto, per caso, accompagnando la mamma o le zie che si rifornivano di bottoni, aghi e cotoni per il cucito. All’epoca, in famiglia, si poteva fare a meno di molto ma non di una dotazione decorosa da sarta e la manutenzione più necessaria era quella alla Singer, alla Necchi o alla Borletti, prima ancora di quella per la Fiat 500 o per la 600.

Quello che ricordo di quel negozio è un forte profumo, un profumino di quelli che si usavano in quegli anni, stucchevolmente dolciastro. Sapeva un po’ di talco felce azzurra, un po’ di lavanda, un po’ di spezie, un po’ di rose appassite. Dovendo immaginare un nome “anni 60″ per quel profumo direi “Notte d’amore a Bagdad” quando questa era ancora,  nell’immaginario collettivo,  la fantastica città delle mille ed una notte.

Il negozio di Immacolata era ordinatissimo, il bancone era piccolo e stracolmo di scatole, scatoline, grandi rocche di merletto industriale, nastri di tutti i tipi, attrezzi da ricamo e cucito, calze, veli per la messa. L’arredamento era costituito da stipi dipinti (e ridipinti) di bianco latte, appoggiati alle pareti, tanti cassetti con manigliette e pomelli di ottone ai quali corrispondeva una merce diversa. A seconda della lucentezza dell’ottone si poteva indovinare  il cassetto dove era custodita la merce più richiesta e quello degli articoli fuori moda. Ad Immacolata, comunque,   bastava solo un accenno per trovare subito quello che occorreva alla cliente. Ogni volta che apriva un cassetto, sembrava che gli effluvi di “Notti d’amore a Bagdad” si accentuassero. Forse erano profumati anche i tiretti o forse era il suo profumo personale che, irrorato in generose dosi, si espandeva nell’aria ad ogni movimento del suo corpo.

Anche la vita privata di Immacolata fu sempre molto riservata. Quello che si dice è che, sicuramente, ad un punto della vita ebbe un lutto  che la indusse a portare il nero per sempre e ciò quando questo colore non era certo di moda, quantomeno al sud, ma serviva ad esprimere il dolore per la perdita di un caro. Non ho mai saputo se fu sposata e se il lutto lo portasse in memoria del marito ma, comunque, mi piace pensare che lei rimase fedele per sempre al ricordo di una persona speciale che aveva amato da giovane.

Ogni domenica mattina anche lei, come Cesira, la si poteva incontrare a “missa matinu”, così come si indica col nostro uso dialettale la prima messa del mattino. Si sedeva allo stesso banco di Cesira che arrivava in chiesa ancor prima della sorella e ciò sempre che, le due, sorelle lo siano state …

Scritto con WordPress per Android